L’eredità del sangue

I khmer rossi avevano portato all’uccisione della metà della popolazione cambogiana. Una tragedia che Phnom Penh vuole dimenticare.
Phnom Penh

Illumina il corso sonnacchioso del Mekong, il sole calante. Sono appena sceso dal Wat Phrom, un tempio trasformato in un festival di colori inusitati dal tramonto stucchevole di rosso e dalle luminarie digitali – kitsch e pacchiane – che la fede locale ha posto a corona dei tanti buddha del tempio. Le scimmiette si mescolavano ai mutilati della guerra e delle mine, così come ai mocciosi sporchi e furbi, nel contendersi monetine e noccioline. Ho attraversato un mercatino di pesce puzzolente e di frutta deliziosa di profumi esotici. Sono riuscito ad evitare l’impatto con centinaia di motorette scoppiettanti che sputano olio e biossido di carbonio. Mi volto verso il fiume, presenza dolce e terribile – nella guerra civile ha trasportato centinaia di migliaia di cadaveri verso l’immensa tomba dell’Oceano – e vedo avanzare un possente e bonario elefante. Mi convinco d’improvviso che ho tra le mani la chiave per capire almeno un po’ Phnom Penh: è la città che non sa.

 

Loro non sanno

 

Gli abitanti della capitale non sanno che il loro popolo ha rischiato l’estinzione per via del genocidio di metà della popolazione cambogiana. Ogni famiglia ha conosciuto lutti e disperazioni, ma ritiene che sia stato un accidente della storia, o un incidente della cronaca. Forse così riescono a vivere di nuovo assieme senza ammazzarsi. La gente non sa che, in fondo, la dittatura non se n’è mai andata dai tempi dei khmer rossi. Non ne ha coscienza, e così può continuare ad avere un simbolo, il re, atto a tenere assieme la patria.

 

Coloro che vivono a Phnom Penh non sanno nemmeno quanto gravi siano i pericoli per la salute pubblica portati dagli stranieri, provocati dall’incuria e dal degrado o in agguato per la cattiva alimentazione. Così non si preoccupano di esistenze che si chiudono troppo presto rispetto agli standard dei Paesi ricchi. E l’economia? Mentre i Paesi limitrofi conoscono crescite consistenti del Pil, la Cambogia sembra ignorare lo sviluppo; così la gente può accontentarsi del poco che raccatta.

C’è un altro aspetto che gli abitanti di Phnom Penh ignorano: che per vivere bene bisogna anche lavorare sul serio, con energia e metodo. Niente sembra in effetti più refrattario a loro che l’idea del lavoro come fatica. Così possono continuare a sorridere al mercato, dietro un mucchio di seppie secche puzzolenti, o continuare a condurre i tuktuk in un inquinamento che buca i polmoni.

Forse la gente di Phnom Penh non ha nemmeno ben chiaro quanto di bello si trovi nel Museo nazionale, tesori pre-angkoriani, angkoriani e post-angkoriani, dal IV secolo in poi: ricami di pietra. Se lo sapesse, forse non riuscirebbe a vivere nelle bruttezze estetiche di tanti quartieri.

Ma la gente di Phnom Penh una cosa la sa, almeno una: che nella vita quel che conta è giocare, è non prendersela, è riconoscere sempre il lato positivo della realtà.

 

Pol Pot, tre milioni di crani

 

Ho toccato l’abominio, forse l’ho solo sfiorato, e sono stato preso nella rete. La rete dello sdegno. Come se i tre milioni di cambogiani uccisi fossero di un altro mondo, come se io non fossi capace di commettere atti tanto efferati. E invece no, anch’io sono in potenza un altro Pol Pot. Anch’io, avessi un altro itinerario di vita, potrei trasformarmi in carnefice. Anche io, pur guardando negli occhi la mia vittima, potrei sparargli a bruciapelo. Scaccio così la rete dello sdegno – che demonizza l’altro, che allontana il prossimo, che distoglie dalla verità – per ammettere la mia umanità malata, che necessita di redenzione. E visito due haut lieu del regime dei khmer rossi: la prigione di Toul Sleng e Choeung Ek, il campo di concentramento, mausoleo del genocidio. Duro duro duro.

 

Toul Sleng: sotto l’insegna arrugginita dell’entrata, un pugno di mutilati chiedono l’elemosina. Li ho mutilati io. Entro nel recinto di quella che era una scuola professionale, che fu trasformata in inferno, per divenire infine un museo. Mi faccio sfilare dinanzi cento e cento foto di vittime, le mie vittime, e di carnefici, i miei compagni di perversioni. Li guardo tutti negli occhi di carta, sguardi spenti, senza più odio, gli occhi dei condannati a morte, gli uni e gli altri; che per caso si sono trovati gli uni dalla parte di Lon Nol e gli altri dall’altra, quella di Pol Pot.

E poi i muri sventrati, folli aperture senza logica e senza misericordia, gli strumenti di tortura, sofisticati, made in China Laos Vietnam. E quelle foto senza speranza e senza passato, sguardi sospesi nel nulla di un presente che sfregia la sola convivenza umana possibile, quella che viene dalla coscienza che la morte ci accomuna. Mi raccontano le storie dei sopravvissuti, sette persone in tutto, non una di più. Io, carnefice, avrei ora il diritto (e il coraggio) di guardarli negli occhi? Non lo so.

 

Salgo i gradini del palazzo in cui erano rinchiuse donne e bambini. Mi sento odioso, sporco, coperto di vergogna e colpevolezza. Celle di due metri quadri, di mattoni di legno, di cartone. Condannate a morte, le delicate e fragili donne cambogiane e i loro piccoli nella ricerca di una impossibile assoluzione, d’una immaginaria redenzione collettiva. O fors’anche personale. Ma comunque redenzione. Dove trovarla?

Ossa crani tibie. A mucchi, come ad Auschwitz. L’anonimato delle ossa del cranio private degli occhi, anzi degli interi bulbi oculari: l’immagine mi ossessiona, rivedo la mano degli aguzzini-bestie cavarli dalle orbite di quegli uomini e di quelle donne colla colpa di essersi trovati dalla parte sbagliata al momento sbagliato. Le mie mani, macchiate di sangue e di lacrime, materia vischiosa che resta incollata alle dita.

 

L’albero dei bambini

 

Mi allontano. L’operazione intrapresa la ritenevo catartica, ma in realtà mi pare solamente diabolica, infernale. Debbo bere il calice fino all’ultima goccia. Fermo così un tuktuk e mi faccio portare al campo di concentramento di Choeung Ek, lì dove i cittadini non ammazzati alla prigione di Toul Sleng venivano condotti per farla finita in modo “economico”: le pallottole erano diventate merce rara, non valeva la pena sprecarle per finire un umano.

Le donne le bastonavano sulla testa fino a tramortirle e poi le seppellivano vive. I bambini… la mostruosità: venivano afferrati per le gambe facendo sbattere il loro capo su un tronco, questo tronco, proprio quello che sto accarezzando. La corteccia ormai è ricresciuta. Ciuffi di abiti emergono dal suolo, ancor oggi. Gli uomini? Venivano ammazzati come capitava, risparmiando in ogni caso le pallottole, please. 43 fosse su 129 censite non sono state ancora aperte.

 

M’avvicino al memoriale del genocidio, una slanciata pagoda bianca gialla verde. Racchiude una colonna oscena, non infame, di teschi. Venti metri in altezza. Per avvicinarsi alle vetrine che la limitano, si passa per angusti pertugi, costretti a sfregare il proprio corpo di carne contro l’immondo precipitato di teschi umani. Mi sottopongo al rito, con gli occhi fissi sui teschi. Ognuno di essi è anche il mio. Ognuno di quei teschi è quello dell’uomo del Calvario. La catarsi è compiuta, perché sono ormai solidale con le vittime della violenza dei khmer rossi, ma anche (e sempre e ancora) coi carnefici seguaci di Pol Pot.

 

 

Tante, troppe vittime

«Se la ricchezza sono i figli, la montagna della fiamma è la suocera», mi dice seduto ai tavolini di una bettola del mercato un uomo sulla sessantina che ha voglia di praticare il suo francese impolverato. Mi spiega il proverbio: è la parola della suocera quella che può dare fuoco alla montagna. «Da sposati gli uomini vanno a vivere dalle suocere – mi dice l’uomo, affabile e cortese –. Ed è la suocera che comanda, è lei a cui bisogna versare tutto il denaro che si guadagna. E se l’uomo non raccoglie abbastanza denaro, sono dolori! Non avevo soldi per comprare la casa, e così mi sono deciso a cinquantacinque anni a ritirarmi a vivere da solo. Eppure sono stato e resto fedele a mia moglie, perché dice il proverbio: “Le foglie dell’albero debbono cadere lontano dal tronco”».

 

Passiamo fatalmente a parlare della dittatura – «ma devi assolutamente tacere il mio nome, altrimenti mi tagliano la gola» –, che al mio interlocutore appare ancora presente. «Abbiamo cambiato il conducente, ma il pullman è rimasto lo stesso – mi spiega –. Ancor oggi si uccide per il potere. Ora non c’è più ideologia comunista, ma quella del potere per il potere. Si è arrivati a uccidere la propria razza per il potere: non sapevamo nulla di Pol Pot e delle sue intenzioni. Solo più tardi abbiamo saputo quel che era successo. Le radici di questo governo sono nei khmer rossi, e c’è ancora servitù nei confronti dei vietnamiti comunisti. Il governo si regge sui brogli».

 

Ripercorre poi la vicenda cambogiana dal colpo di Stato di Lon Nol, all’improvvisa nascita dei khmer rossi – «erano pronti da tempo, perché in una notte sono apparsi ovunque» –. E poi l’invito di Lon Nol ai vietnamiti del Sud per combatterli, l’appello del principe Sihanouk, fuggito in Cina per combattere da lì il fedifrago che l’aveva cacciato, l’arrivo dei khmer nelle città, le epurazioni, gli omicidi di chiunque avesse studiato, i due milioni di morti ammazzati e il milione morto di fame, le famiglie smembrate.

«Io stesso – prosegue – ho perso mio padre, due sorelle e un fratello, uccisi sotto tortura. Papà è morto per i colpi di bastone ricevuti, mio fratello ucciso da un colpo di pistola alla tempia, le mie sorelle pugnalate al cuore. La mia famiglia aveva una colpa: essere ricca».

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