L’equilibrio instabile

Vive in quel crinale sottile dove il reale e l’ideale – o, meglio, il divino e l’umano – si toccano, combaciano, almeno per un istante. E la forma, di una armonia compiuta, genera in noi un senso di stabilità, un desiderio di equilibrio appagato. Forse sta qui il fascino di Raffaello, nella sapienza compositiva di un mondo sentimentale che è storia antica e storia presente: sentimento rea- le e visione. Detta con immediata chiarezza e semplicità. Quella naturalezza che ha fatto parlare di classicità riguardo alla sua opera e che nel nostro tempo dissonante fino all’autocompiacimento colpevolmente ignora, pur soffrendone la nostalgia. Ma quest’equilibrio – è il primo quindicennio del secolo sedicesimo – è fragile, il suo raggiungimento tormentato. Pure, ad opera compiuta, si trova qualcosa di eternamente bello e nobile, che ha fatto sospirare i secoli sul nome di Raffaello, ispirando schiere di seguaci, imitatori, estimatori. Nei saloni ambiziosi della Galleria Borghese la giovinezza senza tempo del pittore si distende in 50 tra tavole e disegni, dagli anni della fiorentinità e del superamento della lezione peruginesca al preludio alla maturità romana. Sarebbe utile, forse, per ogni visitatore, entrare nella Stanze in Vaticano prima di scendere in questa Villa: si potrebbe infatti sondare l’ampiezza del percorso di questo genio precoce. Nella rassegna, le opere ruotano intorno alla Deposizione Baglioni da poco restaurata e ricomposta nel suo presunto assetto originale, con l’Eterno in alto e la predella delle Virtù in basso. Un ex voto materno in memoria di un assassinio. Il dolore della madre Atalanta Baglioni per l’uccisione del figlio Grifonetto (il giovane portatore in primo piano) è compreso in quello di Maria. Storia del presente rivissuta guardando ad un passato aperto sull’eternità con l’occhio della fede cristiana. Preceduta da disegni bellissimi, la tavola è il punto di equilibrio fra Raffaello che lascia la giovinezza verso l’e- pos romano, di cui diventerà maestro. La poesia della natura, dei colori, l’indugiare del Trasporto tra pieni e vuoti, dichiarano una impostazione architettonica dello spazio: protagonista silenzioso di una grande meditazione sulla storia e sull’uomo. Intorno a quest’opera- fulcro, sfilano i ritratti e le madonne. Se l’indagine psicologica ondeggia tra la delicatezza umbratile del giovane di Budapest – forse un autoritratto – e la plasticità carnale della cosiddetta Fornarina degli anni romani, le madonne formano nell’attività del pittore la costante più ricorrente. Uno sguardo ad esse informa del cammino artistico di Raffaello forse più di altre considerazioni o dipinti. Quello che permane fisso in lui è l’attaccamento – si direbbe un innamoramento – per il tema della madre col figlio. Ogni possibile variante affettiva è esplorata, nelle tavole e, si direbbe, soprattutto nei disegni, durante i suoi due decenni di attività artistica, con invenzioni formali e ritocchi sentimentali che danno l’idea di una indagine infinita. Talora, l’ispirazione è così veloce e fresca che supera la realizzazione finale dell’olio su tavola. È il caso della Belle Jardinière del Louvre, del 1507 circa, il cui cartone è una meravigliosa variazione di ombre calde nella trama degli affetti: le figure emergono sfumate, il volto della Vergine è di una compostezza trattenuta, i bambini sono disegnati con calore e dolcezza. Questa liricità un poco si perde nella tavola, perché la spontaneità quasi si raffredda nella volontà di perfezione formale. E, a mio parere, è un segno della faticosa ricerca di equilibrio sempre presente nel pittore, pur se nascosta dal risultato di disarmante semplicità. In alcuni momenti, l’opera compiuta raggiunge un capolavoro di bellezza suprema. Una rivelazione, come è la Madonna dei candelabri di Baltimora, sul 1514, nella piena maturità di Raffaello: le figure si slargano in un’apparizione piena di vita e di verità. Una madre si sporge col bambino, vicina e lontana, mentre due ragazzini occhieggiano ai lati: questa umanizzazione del divino, espressa con assoluta facilità è una delle sigle di Raffaello, uno dei fattori della sua enorme popolarità. Riepilogando in quest’opera altre composizioni – la Madonna Colonna e la Madonna Cooper ad esempio -, il pittore dona all’immagine quella calma esterna ed interiore che, se oggi è poco amata, pure parla di una serenità beatificante di cui ognuno avverte il bisogno. La medesima pace si traduce nei ritratti – penso alla Gravida – in forme quiete, cariche di emozione contenuta. Ma tale serenità, anche in Raffaello, non è mai disgiunta da qualcosa di doloroso. Chiunque contempli, ad esempio, la Madonna Aldobrandini, tesa in diagonale tra Gesù e san Giovannino, rivedrà nello sguardo abbassato una malinconia, una tristezza presaga di sventure – il martirio dei due bambini – cui il paesaggio nebbioso alle spalle conferisce un tono assorto, di controllata mestizia. Anche il colore vede tinte accorpate – i rossi e i blu – con sfumature di morbidezza lacrimosa. In questo quadro si piange, ma senza una lacrima. Raffaello assorbe e racchiude in un equilibrio emotivo delicatissimo, commozione e speranza. Presentando la vita sempre nel suo lato più vero, e pure più riappacificato. Su questa via, forse l’opera più bella della rassegna si rivela il disegno con due teste: una madre, un bambino: le due facce, che poi son una, di Raffaello, di cui si diceva in apertura: l’ideale e il reale, la storia e il presente. Il bambino gioioso, la madre assorta: ritratto autentico, sublimato da un ideale universale di amore e di vita. Da qui alla Stanza della Segnatura, ove i concetti di bene vero bello sono universalizzati in persone e fatti, il passo è breve. L’armonia è raggiunta. Ma il crinale resta sottile. Ancora pochi anni e, con la grande Trasfigurazione si apre la pagina del dramma, che sfocia nel barocco. Questa, però, è un’altra storia.

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