Leoni di Palestina e di Israele
Due modi di raccontare una terra: la si chiami Palestina o Israele è la stessa terra. Due sguardi contrapposti, ciascuno esclusivo, eppure animati da passioni che, al di là della contrapposizione culturale e narrativa, sembrano quasi coincidere. Due racconti apparentemente molto lontani, verrebbe da dire inconciliabili, eppure colpiscono entrambi profondamente per alcuni aspetti simili, nella loro radicalità purtroppo fatale.
Un primo racconto di questi giorni è quello del gruppo palestinese, nato lo scorso anno, che si è dato come nome: la Tana dei Leoni (Areen al Usul). Un gruppo di giovani palestinesi che ha accolto chiunque volesse combattere contro quelli che loro definiscono “occupanti” ebrei della “patria”. Si rifiutano di distinguere a quale gruppo palestinese appartenga chi vuole unirsi a loro: per i Leoni di Palestina non conta se appartieni ad Hamas, Fatah, alla Jihad o al Fronte popolare, conta l’amore per la patria.
Con il loro coraggio e il loro modo di fare hanno conquistato il cuore di tanti della loro gente, tanti e da tempo delusi dai “compromessi” dell’Autorità Palestinese. Il primo “Leone”, l’ormai leggendario Leone di Nablus, era Ibrahim al-Nabulsi, che è stato ucciso dai militari israeliani appena diciottenne pochi mesi fa. Il suo ultimo messaggio vocale ai compagni mentre veniva attaccato è stato: «Vi amo così tanto. Quando sentirete questo messaggio sarò un martire. Dite a mia madre che la amo. Prendetevi cura della patria dopo che me ne sarò andato, e la mia ultima volontà che vi lascio, onoratemi: non deponete le armi, fatevi onore. Sono circondato e vado verso il mio destino».
Nei successivi blitz degli israeliani in Cisgiordania, in questi ultimi mesi, sono stati uccisi anche i primi compagni di Nabulsi, ma la Tana dei Leoni rimane viva. L’ultimo messaggio di questi primi Leoni non mette paradossalmente l’accento sull’odio, come ci si potrebbe aspettare, ma pone una domanda profonda, dettata dall’amore: «Che tipo di vita è questa, che viviamo in pace con coloro che abusano del nostro sangue e del sangue dei nostri figli, fratelli e sorelle?».
Un altro racconto di questi giorni, opposto nella prospettiva, racconta la storia di Avi Maoz, controverso leader di Noam, partito ebraico della destra più radicale, ultraconservatore, anti-arabo, nazionalista, che difende posizioni omofobe e misogine, e che fa parte della coalizione di governo. Maoz ha deciso di lasciare il suo incarico di vice ministro per l’identità nazionale ebraica (in riferimento ai programmi scolastici) nel governo guidato da Netanyahu. In una lettera al premier, Maoz ha spiegato di essere «scioccato nel constatare che non c’è alcuna seria intenzione di onorare gli accordi di coalizione» per l’affermazione dell’identità nazionale ebraica. Un ritiro, quello di Maoz, che a modo suo sembra dettato dall’amore deluso per la patria tradita. Forse perché, secondo lui, non fa abbastanza per “eliminare” i terroristi?
In un quadro di questo tipo, domenica 26 febbraio, si è tenuto ad Aqaba, in Giordania, un vertice tra Egitto, Palestina, Israele, Giordania e Stati Uniti «per il raggiungimento di una pace giusta e duratura in Medio Oriente». Palestinesi e israeliani hanno ribadito fra il resto il rispetto dei precedenti accordi e il rafforzamento della reciproca fiducia e del dialogo. L’impressione, da estraneo beninteso, è che si sia trattato di una specie di liturgia vuota. Ma è più probabile che i “rappresentanti” riuniti ad Aqaba non fossero in realtà molto rappresentativi.
In meno di due mesi il numero delle vittime palestinesi è salito a più di 60 persone (finora), e almeno dieci israeliani e un turista sono stati uccisi dai palestinesi. A conferma peraltro di un andamento in atto fin dallo scorso anno: con almeno 170 morti palestinesi e 30 israeliani, il 2022 è stato l’anno più mortale in Terra Santa (Israele, Cisgiordania, Gaza) degli ultimi due decenni.
Altra conferma, poche ore dopo la conclusione dell’”idilliaco” colloquio di Aqaba, il consigliere per la Sicurezza Nazionale del governo israeliano, Tzachi Hanegbi (del partito di Netanyahu: Likud) ha sentito il dovere di precisare: «Contrariamente ai rapporti e ai tweet sull’incontro in Giordania, non vi è alcun cambiamento di politica in Israele… Nei prossimi mesi lo Stato di Israele autorizzerà 9 avamposti e approverà 9.500 unità abitative in Giudea e Samaria… Non vi è alcun congelamento o cambiamento dello status quo sul Monte del Tempio e non vi è alcuna restrizione nell’attività dell’Idf» (nda: l’Esercito israeliano).
Last but not least, sempre mentre era in corso il colloquio di Aqaba, due giovani coloni israeliani di 21 e 19 anni sono stati investiti e poi crivellati di proiettili nella località palestinese di Huwara, a sud di Nablus, in Cisgiordania. La loro uccisione è stata anche “festeggiata” (con relativi video postati sui social) da diversi gruppi palestinesi sia in Cisgiordania che a Gaza. E la reazione dei coloni ebrei è stata la discesa in massa, insieme a forze dell’ordine israeliane, a Zaatara, poco lontano da Nablus, per distruggere 30 case, dare alle fiamme 100 automobili, e ammazzare 3 palestinesi ignari.
E in questo delirio, Netanyahu ha avviato un iter per introdurre in Israele la pena di morte per i “terroristi”. Quali?
Grazie a Dio, in questa mattanza, si è alzata anche la voce del presidente della Repubblica, Isaac Herzog, che ha condannato «con forza la violenta e crudele furia contro i residenti» palestinesi di Huwara. «Non è questo il nostro modo – ha detto Herzog –… È una violenza criminale contro innocenti. Danneggia lo Stato di Israele, noi, gli insediamenti. E danneggia le forze di sicurezza impegnate nella ricerca dei responsabili dell’attacco terroristico. Ma soprattutto danneggia noi come società morale e stato di diritto».
Grazie presidente.
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