Leonardo e le altre, quale strategia per le società controllate dallo Stato?

Da Leonardo a Fincantieri, quale missione possono perseguire le grandi società controllate dal capitale pubblico nel Piano nazionale di ripresa e resilienza?  Intervista alla professoressa Vera Negri Zamagni, autorevole studiosa di storia economica
Leonardo, robotica Foto LaPresse/Fabio

Leonardo e Piano nazionale di ripresa e resilenza. Oltre a fronteggiare l’evoluzione della pandemia, con tutte le incognite delle sue varianti, e l’organizzazione logistica dell’accesso ai vaccini affidato ad un militare, il generale Figliuolo, la sfida maggiore che sta affrontando il governo Draghi è quella della riscrittura del Recovery plan da presentare entro fine aprile in Commissione europea.

Con la nomina a ministro alla Transizione ecologica di Roberto Cingolani, proveniente da Leonardo Spa (ex Finmeccanica) e il passaggio di un esponente di primo piano del Pd, Marco Minniti, direttamente dal Parlamento ad una fondazione di Leonardo dedicata all’area medio orientale, è emerso, in maniera evidente, il ruolo decisivo che rivestono le società controllate dallo Stato nel definire le linee di politica economica. Il controllo dello Stato avviene solo come azionista interessato ai dividendi? Oppure, come hanno chiesto Fabrizio Barca e Enrico Giovannini, ora neoministro ai Trasporti, è necessario che sia resa esplicita una missione di politica industriale nel segno della sostenibilità e riconversione economica?

Ne abbiamo parlato con Vera Negri Zamagni, autorevole esperta di storia economica, professoressa dell’Università di Bologna, fondatrice della European Review of Economic History, pubblicata dalla Cambridge University Press, autrice di diversi testi tra cui un volume dedicato a Finmeccanica.

A suo parere Leonardo, Fincantieri, Eni, Enel, ecc. possono avere un ruolo determinante nella cosiddetta transizione ecologica?
Certamente le aziende a partecipazione dello Stato italiano potrebbero svolgere un ruolo determinante nella transizione ecologica, ma l’unica fra quelle da lei citate che finora ha fatto consistenti investimenti in tale direzione è stata l’ENEL, con un piano a lungo termine convincente. L’ENI, invece, è ferma al progetto molto costoso e molto contestato di sotterrare il CO2 e di continuare la conversione a gas, e le altre due sono aziende che assemblano migliaia di pezzi in gran parte non prodotti da loro e quindi sono molto dipendenti dagli orientamenti governativi che impongano una generale transizione ecologica anche ai loro fornitori. Le aziende di Stato hanno sempre avuto una missione extra-economica, anzi hanno spesso risposto in Italia più a criteri diversi da quelli economici, causando gravi difficoltà di bilancio e alla fine un’insostenibilità economica (basti pensare ad Alitalia!). La richiesta di lavorare per una “missione” è sacrosanta, ma in Italia ha troppe volte significato buttare alle ortiche la sostenibilità economica.

Si può fare una valutazione in generale dei processi di privatizzazione avvenuti in Italia e il ruolo possibile delle società controllate dal pubblico per indirizzare le politiche industriali nei settori trainanti la Next Generation Eu?
Le privatizzazioni in Italia hanno avuto un destino molto diversificato: alcune sono riuscite bene, come Enel, altre sono riuscite parzialmente, come Alfa Romeo, passata alla Fiat che non l’ha saputa veramente valorizzare. Altre ancora sono state disastrose, come l’Ilva di Taranto venduta a piccoli imprenditori che non solo non l’hanno saputa gestire, ma ne hanno peggiorato la nocività, o come Telecom, passata di mano troppe volte senza un vero ancoraggio proprietario e manageriale. In realtà, le aziende restate in mano pubblica sono in larga maggioranza aziende della II rivoluzione industriale e non delle IV rivoluzione industriale. Vedrei dunque bene accordi pubblico-privato, in cui il pubblico si riserva le decisioni strategiche di politica industriale connesse al NGEU e coinvolge i privati a progetto, anche arrivando a partecipare al loro capitale, quando ci fossero aziende valide ma sottocapitalizzate, come sta già facendo CDP. Naturalmente, questo significa dotarsi di una PA che sia in grado di valutare i progetti nel merito e nel prezzo e anche di giudicare gli stati di avanzamento rispetto ad una ragionevole tempistica di realizzazione.

Con particolare riferimento alla ex Finmeccanica abbiamo raccolto la testimonianza dell’ex presidente di Confindustria Genova, Stefano Zara, sulla cessione progressiva di attività di avanguardia nel settore civile a favore di quello militare, con ricadute negative sull’occupazione e l’innovazione tecnologica. Quale è il suo parere sulla strategia seguita da Finmeccanica Leonardo negli ultimi 20 anni?
Come ho scritto dettagliatamente nel mio libro su Finmeccanica dalle origini al 2008 (Il Mulino), ed è confermato da Stefano Zara, tra 1996 e 2000, quando si trattò di privatizzare la grande holding (che solo nel 2016 ha assunto il nome di Leonardo e la configurazione di una singola impresa divisionale), ci si rese conto che era una congerie di decine di medie imprese, molte delle quali con una massa critica insufficiente, che non aveva futuro. Si evitò di vendere tutto a “spezzatino”, come qualcuno aveva suggerito, e come malauguratamente successe a Montedison che non esiste più, ma non si poteva tenere insieme tutto il complesso così com’era.

Che peso ha avuto la consulenza della McKinsey, indicata da Zara, sulle scelte operate dai nostri governi?
McKinsey aveva semplicemente messo in evidenza la realtà descritta, che era figlia del modo a dir poco avventuroso in cui Finmeccanica si era formata, raccattando decine di imprese scollegate, inizialmente persino la cantieristica, che venne poi separata nel 1959; l’Alfa Romeo, che fu la prima ad essere privatizzata; il nucleare, che dovette essere chiuso per le note ragioni; poi le aziende dell’Efim, ente che dovette essere liquidato per mala gestione; e molto altro ancora. Il complesso Ansaldo dentro a Finmeccanica aveva sempre sofferto, più in piccolo, di un problema analogo, che si trascinava dalla I guerra mondiale, quando Ansaldo s’era messa a fare di tutto. Per questo motivo, lo stato era dovuto intervenire varie volte per salvare l’azienda, anche perché il grave problema dell’Ansaldo era quello di avere gran parte dei suoi impianti concentrati in una singola città, Genova.

E come è andata a finire?
A fine XX° secolo, con la chiusura o la vendita di parecchie attività dell’Ansaldo, si erano enucleate due buone aziende, Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, nemmeno loro grandi abbastanza, ma competitive e in grado di crescere. Con la decisione governativa di destinare Finmeccanica ad essere l’azienda pubblica per la difesa, era inevitabile però che non si potesse investire in tali aziende e allora si pensò di collocarle al meglio presso grandi aziende straniere di prestigio. Purtroppo è tristemente noto che l’Italia ha pochissime aziende di grandi dimensioni, e dunque non si trovava qualche “polo” italiano cui aggregare le due aziende, anche se Ansaldo Energia è ora ritornata “italiana” mediante Cassa Depositi e Prestiti, che sta agendo da qualche anno come fondo strategico dello Stato italiano. Da pacifista qual sono, di sicuro non ho apprezzato la scelta dei governi dell’epoca di fare di Finmeccanica l’azienda italiana per la difesa, ma va detto che, se fosse stata presa la decisione opposta, altre produzioni e altre aree del paese ne avrebbero risentito negativamente, perché comunque Finmeccanica doveva focalizzarsi. A detta di molti economisti aziendali, Leonardo non è sufficientemente focalizzata nemmeno oggi.

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