L’enigma del linguaggio umano
Cosa sappiamo veramente oggi di questo sistema comunicativo tanto complesso, che l’uomo non ha in comune con nessun altro vivente e animale?
Come e perché è apparsa nel corso dell’evoluzione la facoltà del linguaggio? Perché i bambini apprendono in modo spontaneo la lingua madre nell’arco dei primi soli quattro anni? Perché, sempre da piccoli, impariamo facilmente una lingua straniera, mentre ciò risulta molto faticoso da adulti? Esiste una base genetica e biologica del linguaggio verbale umano? Si possono individuare i geni (circa 35.000 nella nostra specie) che controllano la facoltà del linguaggio? Qual è il rapporto tra attività dei neuroni del nostro cervello e la funzione linguistica? Esistono delle differenze inequivocabili tra linguaggio umano e comunicazione animale? Le scimmie antropomorfe, infine, possono imparare a parlare?
Origini e significato del linguaggio
Fin dalla più remota antichità il problema delle origini e del significato del linguaggio ha destato vivo stupore e interesse nell’esperienza personale, nella cultura religiosa, filosofica, artistica e scientifica di ogni civiltà. Il linguaggio costituisce il tratto distintivo dell’essere umano, la barriera insormontabile che lo separa da tutti gli altri animali.
Le caratteristiche principali che distinguono il linguaggio umano dai codici di comunicazione degli animali sono quattro: la capacità di riflessione interiore attraverso il linguaggio e nella comunicazione-trasmissione verbale (o scritta), ai propri simili, del pensiero, di per sé “invisibile” e “inconoscibile” dall’esterno. Nessuna scimmia è capace di insegnare i propri pensieri interiori alle altre scimmie, conservandone la memoria di generazione in generazione, attraverso un tempo indefinito e uno spazio sconfinato: l’animale è costretto a ricominciare tutto da capo, scoprendo e apprendendo qualsiasi cosa dall’inizio.
La seconda differenza risiede nella creatività e nell’apertura infinita del linguaggio umano: combinando dei simboli finiti (suoni e segni dell’alfabeto, ideogrammi nella scrittura cinese), diventa possibile realizzare un numero illimitato di frasi, per esprimere pensieri nuovi ed immagini diverse. I sistemi di comunicazione animale, invece, sono “fissi” e “limitati”: nessuna scimmia può inventare un’espressione linguistica “geniale” e comunicarla ad altre scimmie.
La terza differenza si fonda sul fatto che nel mondo animale la comunicazione rimane legata a “stimoli precisi” (cibo, presenza di predatori, corteggiamento), senza poter “adattare” i segnali alle particolari circostanze (una scimmia può segnalare la presenza di un predatore, ma non indicarne con esattezza il tipo e descrivere dove si trova e che cosa sta facendo). Così, un’ape che rientra nel proprio alveare dopo aver localizzato una fonte di cibo, non può rifiutarsi di eseguire la danza informativa sulla distanza, sulla ricchezza e la direzione della stessa fonte di cibo, bensì ripete la danza ogni volta che ritorna, e le altre api non possono rifiutare di muoversi verso la localizzazione del cibo, dichiarando lo sciopero della fame. Il linguaggio umano, al contrario, è intenzionale e, quindi, esatto, adattabile ad ogni circostanza, capace anche di simulare e di decidere se comunicare il vero o il falso, o confonderli, per inganno, per gioco, per scherzo, ecc.
La quarta differenza riguarda l’universalità, in tutti gli esseri umani, della capacità di parlare e la varietà delle lingue storiche e convenzionali. Nel mondo animale tutti i membri della stessa specie riconoscono un solo sistema comunicativo biologicamente innato (qualsiasi ape riconoscerà la danza caratteristica eseguita da un’altra ape). L’essere umano, invece, possiede innata e universale la facoltà di usare il linguaggio, ma non si serve di una sola lingua. Al contrario, sul pianeta si parlano oltre sette mila lingue, ognuna portatrice di una particolare tradizione e civiltà.
La grammatica universale
Questa varietà impressionante di lingue e dialetti, tuttavia, si modella su un’unica “grammatica universale”, una struttura profonda e innata nella prodigiosa “architettura del cervello umano”. Per questo, oltre la propria lingua, ogni uomo può imparare facilmente, da bambino, con una certa difficoltà da adulto, una qualsiasi o più d’una delle altre migliaia di lingue “possibili” in uso nel nostro pianeta. Esiste tuttavia un rapporto stretto e complementare tra “facoltà innata” del linguaggio e “necessità dell’apprendimento”, fin dalla nascita, di una o più lingue storiche in un contesto sociale preciso.
Ecco perché gli studiosi parlano di una “soglia critica” (i primi otto anni circa), al di là della quale l’individuo umano non può più apprendere nessuna lingua: se un neonato, infatti, rimanesse in un ambiente selvaggio, separato completamente dal contesto umano e sociale per i primi otto-dieci anni, una volta ritrovato, non potrebbe più apprendere la lingua umana (episodi dei cosiddetti “bambini-lupo”).
Gli ultimi cinquant’anni di ricerche interdisciplinari sul linguaggio hanno rivoluzionato non solo il modo di pensare questo fenomeno, portando alla ribalta le neuroscienze cognitive e rinnovando i fondamenti della linguistica, ma hanno trasformato anche “la visione stessa della mente umana” (A. Moro). Si tratta, peraltro, di una rivoluzione “nascosta”, perché pochi conoscono “questo cambiamento radicale nel modo di vedere il linguaggio”. Tale rivoluzione ebbe inizio negli anni Cinquanta del Novecento, con le tesi avanzate dal linguista americano di origine ebraica Noam Chomsky (Le strutture della sintassi, tradotto in Italia da Laterza nel 1970).
L’autore non indaga più il linguaggio umano come fenomeno dato, come effetto, bensì rivolge la sua attenzione al “meccanismo”, alla “genesi”, al come: ossia ai processi strutturali che rendono possibile il linguaggio e, quindi, all’enigmatico rapporto tra cervello e mente umana. Per Chomsky la capacità linguistica umana presenterebbe un sistema, una struttura innata, comune e universale a tutti gli esseri umani.
Dopo gli studi illuminanti di Eric Lenneberg, la prospettiva biolinguistica ha largamente assunto i connotati di disciplina emergente, rendendo scientificamente fondati gli aspetti biologici del linguaggio umano. Il confronto anatomico tra apparato vocale dell’uomo e quello delle scimmie antropomorfe (polmoni, laringe, faringe, cavità orale e nasale) mostra con chiarezza che solo il primo si trova, sul piano fisiologico, in grado di produrre “spontaneamente e senza sforzo” suoni e parole, mentre nelle scimmie esistono delle “differenze anatomiche nella bocca e nella faringe che ne limitano la funzionalità” (Le scienze, n. 237).
Tuttavia, le differenze biologiche più profonde tra uomo e scimmia per l’uso del linguaggio si radicano nella diversa architettura e nella dissimile organizzazione neurologica del cervello. Esistono delle aree neocorticali che si attivano nell’uso del linguaggio, come l’area di Wernicke e in particolare l’area di Broca, mentre nel cervello delle scimmie no. Nel cervello umano (la struttura più complessa dell’universo conosciuto) agiscono più di dieci miliardi di cellule cerebrali e si effettuano migliaia di miliardi di connessioni tra neuroni: connessioni, invece, assai ridotte nelle scimmie.
Ecco perché tutti i lodevoli sforzi finora compiuti per far parlare spontaneamente una scimmia si sono rivelati inutili e anche patetici: gli scimpanzé, chiamati Washoe, Sarah ecc., hanno appreso qualche elemento di “linguaggio artificiale”, ma nessuna scimmia è capace di “associare un simbolo verbale, gestuale o visivo al suo referente” e, soprattutto, nessuna scimmia si rivela in grado di usare spontaneamente e intenzionalmente la grammatica e la sintassi e decidere di insegnarle ad altre scimmie.
Le neuroimmagini
Quella che chiamiamo “grammatica”, e che impariamo a scuola consapevolmente (di qui l’importanza dell’istruzione), non risulta una “noiosa operazione”, bensì la presa di coscienza, attraverso il linguaggio stesso e la sua competenza, dei tratti distintivi delle facoltà superiori della nostra mente (simbolico-religiose, artistiche, razionali e scientifiche), che la nostra specie non ha in comune con nessun altro animale. Tale grammatica originaria non è, in prima istanza, frutto della nostra invenzione, né costituisce un insieme di regole astratte da subire dall’esterno, come un’impalcatura artificiale che non ci riguarda. Essa, in realtà, rappresenta il mistero più profondo della nostra condizione umana e ci rende consapevoli della potenza “unica” e creativa delle nostre capacità cognitive superiori, che non si possono sminuire e degradare presentandole arbitrariamente come “sottoprodotti inutili” dell’evoluzione (riduzionismo materialistico).
Dal XX secolo, la combinazione della neurologia e dell’informatica ha dato origine a tecniche che permettono l’esplorazione “in vivo” del cervello umano, mediante neuroimmagini, come la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (FMRI).
Gli esperimenti “in vivo” di neuroimmagini (misurazione dell’afflusso sanguigno nelle regioni cerebrali interessate ed evidenziate tramite immagini colorate) hanno dimostrato che la struttura universale della sintassi e delle lingue “possibili” ha una localizzazione in alcune aree specifiche dell’architettura neurobiologica del cervello.
Sulla base di tali esperimenti empirici, sembra possibile confermare che la distinzione tra lingue possibili (realizzabili) e lingue impossibili (artificiali, teoriche), non deriva da un artificio o accidente storico e culturale, bensì dalla struttura preprogrammata del cervello umano. Pertanto, “le grammatiche delle lingue umane”, in particolare per la componente sintattica, “non possono mutare a piacere”: solo quelle lingue che si modellano sulla grammatica universale, le cui regole fondamentali trovano un riscontro nell’attività dei neuroni di specifiche zone del cervello, sono “possibili”, tutte le altre risultano costruzioni possibili dal punto di vista teorico, ma “impossibili”nella realtà concreta.
Davanti all’esito finale, che l’evoluzione creativa ha realizzato con la specie umana, e di fronte alla complessità della mente, si capisce perché gli studi più recenti, nonostante la loro efficacia nel metodo e nei risultati, più che fornire risposte definitive ed esaurienti, generano sempre nuove e più penetranti domande: rimane inesplicabile come sia possibile la coesistenza, nella relazione cervello-mente, di istruzioni innate sulla “grammatica universale” del linguaggio con la varietà e la flessibilità dello sviluppo storico-culturale delle lingue; appare illusorio spiegare l’architettura del nostro cervello nel rapporto con la complessità della nostra mente; resta impossibile determinare come si passi da una rete attiva di neuroni ad una semplice “parola”, alla struttura sintattica di una frase.
Le tecniche affascinanti delle neuroimmagini ci fanno vedere, in modo approssimativo, dove si localizzano, nelle varie zone del nostro cervello, la facoltà del linguaggio e le altre doti superiori della nostra mente, ma non come si debba intendere la loro costituzione intima. Nessuno può spiegare di che natura sia la relazione tra l’attività elettrica dei neuroni nel cervello ed una immagine “autocosciente”, una parola, la costruzione sintattica della frase, il pensiero creativo e razionale, la memoria, la libertà di agire e la responsabilità di scegliere tra bene e male.
Ecco perché le recenti scoperte e le tecniche per vedere “in vivo” la prodigiosa architettura cerebrale hanno riproposto uno dei problemi più spinosi della condizione umana: il rapporto tra dimensione fisico-biologica, visibile e misurabile, e dimensione spirituale invisibile eppure così efficace e creativa come il linguaggio. Con le inevitabili domande: da dove veniamo? Chi siamo veramente? Dove andiamo?