L’emozione dello sguardo
A Venezia è l’estate della Biennale. Il caldo torrido non ferma i temerari avventori che per nulla al mondo rinuncerebbero all’appuntamento. Molti padiglioni nazionali sono arroventati, ma si affrontano con lo spirito di chi è disposto a surriscaldare occhi e mente sotto la lente dell’arte contemporanea.
Il premiato padiglione della Germania pone lo spettatore al di sopra di tutto, nel senso fisico del termine. Si cammina sul pavimento di vetro e si osservano i performer muover- si e armeggiare sotto i propri piedi. Sembra il punto di vista degli ange- li, quello di chi guarda dall’alto, con l’impotenza di una scarsa intera- zione, ma con l’empatia e l’ansia di chi sa che ciò che vede lo riguarda da vicino.
All’insolito punto di vista dello spettatore, strizza l’occhio anche il Giappone che ci porta sotto il padiglione per sbucare con la testa al centro del pavimento. Si guarda dal basso il paesaggio ricreato attorno mentre si diventa parte integrante nell’istallazione e oggetto d’osservazione per gli spettatori del piano superiore. Nella sede dei Giardini, poche altre cose lasciano il segno. In compenso, la sede dell’Arsenale è, forse, la più emozionante degli ultimi 20 anni.
Ci accoglie Maria Lai con un lenzuolo sul quale si dispiegano pagine di stoffa. Un libro stampato col suo bel pacchetto di testo ma, a ben guardare, non contiene né parole, né lettere, solo filo nero impresso con la macchina da cucire. È quindi un libro che non riusciamo più a leggere; intuiamo la presenza di una trama, di un ordito, ma non riusciamo a intenderne e a interpretarne la storia. Servono nuovi codici per vedere, per interpretare e per capire.
Dietro l’angolo, una nuova chiave di lettura ci viene offerta da Lee Mingwei che realizza modalità alternative per rapportarsi al contesto, alle cose, agli altri. I visitatori possono portargli borse, maglie o pantaloni, basta che siano strappati o sdruciti. L’artista, in presa diretta, cuce e rammenda. Si prende cura delle cose, ripara, risana ma, nel mentre, parla con il visitatore. Domande, risposte, riflessioni, i due allacciano un rapporto. Così, nell’atto di rigenerare la trama del tessuto, si genera la trama di una nuova relazione. Il rammendo si propone quindi come testo artistico, ma anche come pretesto per intessere nuovi rapporti di scambio e gratuità.
Vajiko Chachkhiani, per la Georgia, porta in Biennale una vecchia casa di legno, una casa vera, a dimensioni ambiente. Non è concesso entrare ma, con spirito voyeur, si guarda l’interno attraverso le finestre. La lampadina accesa, un vecchio letto, un vecchio tavolo, effetti personali… tutto inesorabilmente bagnato dalla pioggia incessante che cade dal soffitto. La sensazione di disagio e di spaesamento è quella vissuta di fronte ai paradossi di Magritte o alle visioni di David Lynch. La bacinella sulla sedia rievoca l’atto di raccogliere una goccia che cade dal soffitto, ma qui la falla non è contenibile, il danno non si può arginare. Resta la presa di coscienza impotente di quel rovescio temporalesco che non è più accidentale ma, ormai, congenito alle nostre stesse condizioni di vita.
Padiglione Italia, mai così bello, di un bello che non è regola e piacevolezza ma emozione, tormento, cammino iniziatico alla scoperta di sé e del mondo. Roberto Cuoghi mette in scena l’Imitazione di Cristo. Non quella dei precetti ascetici cui allude il titolo del famoso testo religioso; qui l’imitazione è formale. Una vera e propria filiera con tutti i processi di lavorazione dove un corpo con le braccia aperte viene clonato. Il freddo meccanismo di replicazione mostra presto il suo difetto di fabbrica. Le celle di plastica trasparente evocano quelle d’isolamento che si usano per evitare un contagio. Gli odori sono forti e stillano nello spettatore una dimensione ansiogena. Ogni spazio è comunque visitabile, a proprio rischio e pericolo. All’agghiacciante processo di moltiplicazione e spersonalizzazione, risponde una differenziazione particolare: ogni corpo, simile nella forma a tutti gli altri, sviluppa diverse reazioni chimiche che mettono in atto un inesorabile processo di decadimento. Sulle figure germinano pelurie impalpabili e muffe brune, verdi, arancioni, maculate. Un corpo si crepa e si spacca mostrando l’interno ancora lucido e umido. Le estremità si contorcono e si atrofizzano. Qualche arto si stacca dal corpo. È così che, in barba ad ogni pretesa d’imitazione perfetta, ci troviamo di fronte a figure mancanti, smembrate o in stato di decomposizione. Una potente metafora dell’insensata pretesa di raggiungere la perfezione o di realizzare un canone. Una superbia destinata a naufragare sugli scogli dell’imperfezione umana, quella stessa imperfezione che qui caratterizza e differenzia la varietà estetica dei corpi. Il contagio avviene, non sul piano fisico ma su quello mentale e interiore. E siamo portati a considerare la perfezione (formale o spirituale) come ideale che mette in moto un cammino, un processo, un cambiamento, ma non come fine ultimo.
Col cuore aggrovigliato allo stomaco, si attraversa l’opera successi-va. La gradinata in fondo ci porta al livello superiore dove si apre lo spettacolo allestito da Giorgio Andreotta Calò. Il soffitto a capriate di archeologia industriale si alza dai mattoni usurati. I materiali più tipici dell’arsenale ci appaiono in una suggestiva visione di penombra. L’effetto mozzafiato è degno delle carceri di Piranesi. Terribile e misteriosa, l’architettura si riflette in basso e sulla parete di fondo, amplificando e moltiplicando illusionisticamente le dimensioni dello spazio. La percezione si sdoppia, si ribalta. Siamo portati a interrogare il nostro sguardo, e svelare i meccanismi di questa visione. La superficie riflettente non si può toccare ma, sotto la spinta di uno spirito curioso e ribelle, parte un soffio a pieni polmoni. I richiami e i rimproveri dei guardia-sala sembrano lontani, quasi spazzati via dalla visione vertiginosa che prende forma: un’onda flebile si propaga a perdita d’occhio scuotendo e facendo oscillare l’intero paesaggio industriale. È un’onda che ci spinge nel mondo dello stupore. Il nodo allo stomaco si scioglie. Come il pelo dell’acqua, la visione s’increspa, si schiude e si apre per sbocciare nella meraviglia. Con gli occhi traboccanti d’incanto, non sono più le opere a dover colpire o emozionare. Siamo noi a investirle col nostro sguardo attento, recettivo, sensibilizzato. Possiamo carezzare le immacolate sculture di Claudia Fontes, il suo cavallo colossale e i suoi due ragazzi. Possiamo navigare fino all’isola di S. Giorgio ed entrare negli specchi di Pistoletto, cogliere riflessi, relazioni di figure, di luoghi e culture. Possiamo vedere tanto altro ancora e cogliere il bello, il brutto, esserne attratti o inorriditi. E a tutto possiamo dare un senso, perché educati dall’arte a vedere, sentire, interpretare.