I Legionari di Cristo dopo lo scandalo
Nel gennaio 2008 moriva Marcial Maciel Degollado, fondatore della congregazione dei Legionari di Cristo. Da qualche anno era confinato in una vita di solitudine e penitenza, impostagli da Benedetto XVI per i suoi comportamenti immorali e la sua vita «avventurosa, sprecata, distorta», da «falso profeta». Nonostante la sua condotta abbia causato «serie conseguenze nella vita e nella struttura della Legione», e nonostante molti componenti della congregazione si siano allontanati dopo aver saputo degli atti di pedofilia compiuti dal fondatore, i Legionari di Cristo continuano ad esistere, sotto la vigilanza della Santa Sede. Padre Marcelo, sacerdote, docente all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum di Roma, e per qualche anno formatore, è uno di quelli che sono rimasti. Con lui ripercorriamo questi anni di prova e smarrimento.
Come ha conosciuto i Legionari? Sono nato a Santiago del Cile nel 1970, in una famiglia cattolica. Due eventi, il terremoto del 1985 e la visita di Giovanni Paolo II nel 1987, hanno fatto sì che cominciassi a vivere più in profondità la vita cristiana nella mia parrocchia di religiosi barnabiti, dove ho sentito la chiamata al sacerdozio. Successivamente ho conosciuto i Legionari, che mi hanno attirato perché erano sacerdoti giovani, dinamici e con un’identità chiara: in un mondo secolarizzato il sacerdote è colui che media tra l’uomo e Dio portando il messaggio evangelico. Nel noviziato vivevamo studiando il Vangelo e le lettere del fondatore. La nostra formazione era molto centrata su queste lettere, in cui la dimensione ascetica prevaleva su quella mistica.
Ora si conosce la vita distorta del fondatore… È un mistero come sia sorto in lui il proposito di fondare. È probabile che abbia subìto abusi da piccolo. Con queste ferite nella sfera affettiva prova ad entrare in seminario, ma viene respinto. Allora a 20 anni, nel 1941, raduna 12 ragazzi e fonda una congregazione missionaria. Molti di questi ragazzi presto se ne vanno, ma ne arrivano altri con i quali va in Spagna, dove nel 1944 viene accolto nell’università di Comillas, dei padri gesuiti, ma dopo un po’ il rettore, p. Baeza, scrive a Roma avvertendo delle incoerenze nella vita del fondatore, ma anche evidenziando il fervore sincero dei giovani seminaristi. Questa distinzione tra il vissuto dei giovani religiosi e il comportamento immorale del fondatore rimane nelle successive traversie della congregazione, che nel 1948 riceve l’approvazione canonica in circostanze non chiare. Nel 1956 c’è una prima visita ufficiale di ispezione. Per anni la doppia vita del fondatore resta nascosta fino a quando si viene a sapere che ha due famiglie, una in Messico e un’altra in Spagna, e che ha sistematicamente abusato di molti seminaristi minori. All’arrivo di Benedetto XVI c’è un’altra ispezione che “isola” p. Maciel e nomina un delegato pontificio nella persona del card. Velasio De Paolis.
Come ha reagito la Legione? Il capitolo generale della nostra congregazione nel 2014 ha prodotto un documento ufficiale in cui afferma che il fondatore non può essere preso né come modello né come guida spirituale. Da quel momento ci chiediamo: può una persona così aver ricevuto un’ispirazione dello Spirito Santo per fondare un carisma spirituale nella Chiesa? Personalmente ritengo di no, ma questa è solo la mia opinione, altri confratelli non sono d’accordo.
Perché la congregazione non è stata chiusa? Per lo stesso motivo per cui il rettore di Comillas nel 1944 ha distinto la vita dei membri da quella del suo fondatore. La Legione di Cristo non è una realtà astratta, esiste come comunità di uomini che, con i loro limiti, cercano di rispondere a una chiamata di Dio. Questo vale per me, per tanti miei compagni, e perfino per alcune delle vittime del fondatore che, nonostante quello che hanno subìto e pur con grandi traumi psicologici, hanno cercato di rimanere fedeli alla loro vocazione di sacerdoti continuando a vivere il Vangelo. L’ispirazione originaria di questo stile di vita viene dal Vangelo e non da una illuminazione del fondatore. Ne sono convinto non solo dal punto di vista emotivo, ma anche teologico.
Lei perché non se ne è andato? Il fondatore è morto nel 2008. Prima di quella data pochi sapevano dove fosse e cosa facesse il fondatore. In più ci sentivamo co-fondatori, per cui il rapporto con lui era di piena fiducia. Lui stesso ci aveva avvertito di calunnie messe in giro sul suo conto, ma non mi è mai venuta la curiosità di approfondire la questione. Ricordo, nel 2010, quando il mio superiore mi disse che «alcune delle cose che si dicevano sul fondatore erano vere»: non ci credevo. Quando infine ho dovuto costatare che c’erano stati degli abusi, sono andato in cappella, davanti a Gesù e gli ho detto: «Tu non cambi. La mia speranza e la mia vita religiosa sono basate non sul fondatore, ma su di te». Ho capito anche che da quel momento avrei dovuto avere un atteggiamento attivo per il rinnovamento dell’ordine. Ovviamente è stata una batosta. Mi sono chiesto se entrare nel clero diocesano. Non l’ho fatto perché, nonostante tutto, in questa congregazione ho potuto vivere la mia vita religiosa di sacerdote missionario. Riconosco che per molti non è stato così: ci sono stati alcuni, per esempio, che avendo scoperto gli abusi sono stati messi a tacere e accusati di essere pazzi. Loro sono la nostra periferia: tutti quelli che un giorno erano accanto a noi come confratelli e sono stati mandati via con l’etichetta di “infedeli, traditori del fondatore e della Legione”. Finché non andremo loro incontro con più decisione, non riusciremo a chiudere questo doloroso pezzo della nostra storia.
Lei ha conosciuto il fondatore? L’ho incontrato per la prima volta in Spagna nel 1991, in occasione di un raduno di comunità. Ci dicevano che seguiva ognuno di noi personalmente, ma quando mi sono presentato mi ha ignorato. Per noi ricevere una sua lettera era una gioia. Io gli scrivevo aprendo completamente il mio cuore e raccontando i miei problemi. Ho ricevuto una decina di risposte. Poi ho capito che erano i segretari a scriverle e non lui. Adesso ringrazio il Signore di non essere stato uno dei suoi più stretti collaboratori.
Ancora oggi avete vocazioni. Se uno le chiede di entrare nella congregazione, lei lo sconsiglia? Non lo sconsiglio, perché è Dio che chiama. Gli direi, però: sappi che ti stai affacciando in una situazione non facile, perché noi siamo orfani spirituali. Ci sono ordini meno complicati del nostro. È anche vero che tutte le congregazioni, prima o poi, devono prendere le distanze dal fondatore. Gli direi anche: non sarà facile, abbiamo una spiritualità da ricostituire. E per fare ciò ci vogliono dei santi, amanti della verità, che riconoscano con umiltà lo stato di orfanezza spirituale in cui si trovano. Non avendo un fondatore santo, non abbiamo modelli di santità “legionaria”. Tra i primi legionari ci sono bravi sacerdoti, ma la santità “istituzionale” è un’altra cosa. Questo significa che siamo noi, legionari di oggi, che dobbiamo colmare questa orfanezza per quelli che verranno dopo. Siamo noi, adesso, che dobbiamo farci santi.
Ma dovrete basarvi su qualche punto fermo… Abbiamo le nostre costituzioni, approvate dalla Chiesa, in cui si delineano gli elementi essenziali dello stile di vita e dell’indole spirituale apostolica della congregazione, che è maschile, composta da sacerdoti e da religiosi che si preparano a diventare sacerdoti. Una congregazione con un obiettivo preciso: formare leader evangelizzatori cristiani nel mondo.
Il fatto che la congregazione non sia stata chiusa può dare scandalo? Il vero scandalo è l’insieme! Secondo me ciò che è capitato con la Legione di Cristo è uno dei più gravi scandali della Chiesa, per ciò che è accaduto e per la lentezza con cui si è agito. Ci sono denunce “attendibili” sin dagli anni ’50. Certo, erano altri tempi: la Chiesa non poteva comparire “sporca” del peccato dei suoi figli. Ma se si fosse applicato il Diritto canonico con coraggio, molte sofferenze sarebbero state evitate. Io vivo e soffro questo enorme scandalo dentro di me: la soluzione più facile e onorevole sarebbe andarmene. Ma sento che devo continuare, per dare una mano a rinnovare l’ordine.
Dare una mano in che modo? Soprattutto aiutando la congregazione ad evitare l’autoreferenzialità. È un problema che hanno molti movimenti, sempre preoccupati di crescere. Ricordo la madre generale di una congregazione esistente da tre secoli che mi diceva: «Noi siamo sempre state 50 suore. In un periodo 45, in un altro 55, non siamo mai andate oltre. A me però questo non interessa. Con 2 suore o con 50 la mia finalità è servire la Chiesa, non crescere». Quindi per non essere autoreferenziali non bisogna pensare di essere i migliori, non bisogna avere come obiettivo di aumentare, ma di servire la Chiesa là dove c’è bisogno.