Leggerezza e dramma sul grande schermo

Inghilterra e Messico a confronto nei due film di Fabian e Inarritu: "La signora Harris va a Parigi" e "Bardo", due storie tra sogno e realtà.
Manville
Lesley Manville e Lucas Bravo alla prima del film 'Mrs. Harris Goes to Paris' a Londra (Photo by Scott Garfitt/Invision/AP)

Vogliamo passare un po’ di tempo in leggerezza, con tanto di british humour in salsa francese? Niente di meglio che vedere il film diretto con grazia da Anthony Fabian La Signora Harris va a ParigiUna favola certamente, con qualche nuance disneyana, ma sottile, garbata e che strizza l’occhio ai problemi sociali. Siamo a Londra dove nel 1957 Ada Harris (una ineguagliabile Lesley Manville) si guadagna la vita pulendo appartamenti privati, da una sciocca nobile ad una svampita aspirante attrice. È una donna onesta, semplice che aspetta che il marito ritorni dalla guerra. Un giorno nota in un negozio un abito di Dior che la innamora. È un sogno, lo deve comprare. Fra mille stratagemmi, aiutata dagli amici, racimola la somma e va a Parigi nella Maison Dior. Ovviamente è una intrusa, in un mondo che si ritiene superiore, guidato dalla ostile Madame Colbert (Isabelle Huppert), ma la donna è tosta e riesce a sfondare: avrà un abito tutto per sé. Di più, combina qualche amore fra due giovani, si rende simpatica ad un nobile francese vedovo che la corteggia e organizza uno sciopero delle dipendenti contro un possibile licenziamento.

Ma il cuore del film è la magia del sogno. Poter sognare qualcosa di bello, di stupendo, che faccia sorridere la vita: un sogno di gentilezza nei rapporti, di bellezza negli occhi, nei cuori, nella vita. Incredibile, ci riesce. Un film sorpresa che non è sdolcinato ma vero e fa credere nella possibilità di avere e dare felicità.

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Alejandro González Iñárritu, regista di “Bardo”. (AP Photo/Chris Pizzello)

Altra cosa è il lavoro di Alejandro Gonzàles Inarritu, il regista di film notissimi come Amores perros e Birdman che ha presentato quest’anno a Venezia il suo Bardo, che ora esce al cinema e dal 16 dicembre su Netflix. Un filmone di oltre due ore, ma svelto, barocco, dove il confine tra surreale, simbolo, metafora e onirico è labile, dentro una fotografia coloratissima e spazi immensi. La storia in sé è semplice: un documentarista messicano – un portentoso Daniel Gìmenez Cacho – che ha fatto strada a Los Angeles dove vive con la moglie e i due figli, torna dopo anni in patria per ricevere un premio giornalistico. È una celebrità ma la spia mediatica ormai lo infastidisce.

La fama, la gloria, gli amici potenti non gli danno gioia. Torna a scavare nel suo passato, nella sua infanzia, nel rapporto con i genitori e nell’attuale suo rapporto – tutto da recuperare – con i figli. Ma torna la storia, le invasioni spagnole, Cortès il conquistatore che gli appare sulla cima di indios schiavizzati, la povertà attuale del Messico, la gente disperata che emigra verso gli Usa: sono scene visionarie di forte drammaticità. Ma tutto questo è sogno o realtà?

Il film racconta la perdita delle radici di un emigrato che ha fatto carriera e le vuole però ritrovare, ma che poi in patria in fondo è disprezzato come lo è pure negli Usa: è un uomo senza identità in un mondo dove tutto si compra, come Amazon vuole prendersi il sud del Messico.

Denuncia, sogno, passione in questo poema sulla condizione umana del nostro tempo. Immaginifico, sontuoso, folle. Ma straordinario apologo morale.

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