Leggere Carver

Nell’attuale pletorica circolazione di carta stampata, che moltiplica anche i libri ma non i lettori, dispersi nella loro sovrabbondanza costosa e rivaleggiata con successo dalle più economiche e rapide navigazioni elettroniche, dare un’indicazione di lettura e, ancor più, di amicizia duratura con uno scrittore che non sia un classico del passato, diventa difficile se non quasi impossibile. Proprio per ciò mi è tanto più evidente l’urgenza di raccomandare ai lettori di libri, specialmente ai giovani ma non solo, un grande classico dell’avvenire, perché Raymond Carver, morto prematuramente a cinquant’anni nel 1988, tale si impone a prima lettura, e fa pensare che del suo calibro, dopo Hemingway e Faulkner e Flannery O’Connor, non ce ne siano nella prosa narrativa statunitense del Novecento. Dice infatti il minimalista Jay McInerney – dei minimalisti Carver fu considerato padre insieme a Grace Paley e ad Arn Beattie – che l’esperienza di quell’operaio- scrittore dell’Oregon fu per la sua generazione letteraria (anni Settanta-Ottanta) paragonabile alla scoperta del fraseggiare di Hemingway negli anni Venti. Ma Carver non era né padre né figlio del minimalismo, che comprende con Mc Inerney D. Leavitt, B. Easton Ellis e altri: era un artista ha detto così, in assoluto, D.F. Wallace, e ciò significa che era un fuoriscuola e uno scrittore con una umile-alta coscienza di sé: si paragonava infatti solo con sé stesso, con i propri passi e sviluppi interni, fino all’ultimo che gli fece vedere i racconti di Cattedrale (Cathedral, 1983) come un progresso decisivo e definitivo della propria arte (un senso d’apertura che non c’era in nessuno dei miei libri precedenti, racconti più pieni, più ricchi (…). E più generosi). Il racconto eponimo intitolato Cattedrale, diverso da qualunque cosa abbia mai fatto prima di allora, dice Carver, mi aveva aperto una nuova strada, e da allora nulla per me è stato più lo stesso. Mentre arrivava il successo in grande – e un bellissimo racconto sulla morte di un bambino ha avuto una trasposizione cinematografica con l’interpretazione magistrale del vecchio Jack Lemmon -, l’autodidatta scrittore temprato dal disagio sociale medio- basso dei suoi ambienti, toccato dolorosamente dall’alcolismo, e infine consumato dalla malattia mortale, ci donava, sottolineo, racconti di commovente asciutta tenerezza umana, desolata e accarezzante, che hanno fatto parlare un suo critico, non credo eccessivamente, di sguardo redentivo (redemptive sight). Per invogliare ulteriormente i lettori, come già fa la dedizione a Carver, in Italia, dell’editrice Minimum fax, non mi resta che accennare a due splendide short stories, del cui genere Carver è indiscusso maestro, contemporaneamente avvertendo che solo la lettura intera di queste respiranti pagine, nel loro tempo e nel loro ritmo, ne da l’idea giusta; il sunnominato Cattedrale e, già magnifico nel titolo, Di cosa p quando parliamo d’amore. Il primo introduce, nella vita di un marito il cui matrimonio è in sottile crisi, un cinquantenne cieco, amico della moglie che un tempo aveva lavorato per lui, e ne aveva mantenuto poi la confidenza. Ora quest’ultimo, rimasto vedovo, viene da loro in visita mentre, già prima che arrivi, il padrone di casa ha la mente piena di fastidio, stereotipi e svagata gelosia, che si intrecciano in un mirabile crescendo umoristico- drammatico: Io non ho nessun amico cieco, le ho detto. Tu non hai nessun amico, ha detto lei, Punto. Poi fanno davvero amicizia, fino a trovarsi, dopo cena e mentre la moglie s’è addormentata sul divano, lui a vedere l’altro ad ascoltare un programma televisivo sulle cattedrali. Costretto infine a spiegare al cieco qualcosa delle immagini che si susseguono, il protagonista narrante si trova nei pasticci, tanto più che l’altro continua a pregarlo. Gli dice che sono altissime, tenta invano di descriverne una, commenta: Ai vecchi tempi, quando costruivano cattedrali, gli uomini volevano essere vicini a Dio (…), Dio era una parte importante della vita di ognuno; poi si arrende, dice che non è capace di descriverle e aggiunge che non crede, anche se a volte è dura, sai. Il cieco allora assume le redini di quella deriva e gli fa prendere un foglio di carta grossa del supermarket. Lì il vedente comincia a disegnare-incidere un profilo di cattedrale, scoraggiandosi e poi facendosi guidare la mano dal cieco (Magnifico. Vai benissimo, ha detto), che infine gli comanda dolcemente di continuare a disegnare-incidere ad occhi chiusi; finché entrambi sentono che ce l’hanno fatta. Se c’è un unico aggettivo per questo racconto è: sublime. In Di cosa parliamo quando parliamo d’amore due coppie, una giovane l’altra abbastanza, mangiano e si sbronzano a cena, a poco a poco entrando, attraverso i razzi delle battute brillanti e sempre più pesanti, nel vortice della domanda variamente espressa, allusa o caricaturata, che chiede che cos’è l’amore, come è fatto. Vengono fuori amari ricordi, neri giudizi, smarriti azzardi (anche qualche allusione a possibili scambi di coppia), che fanno un gran rumore di crollo silenzioso, come se ci trovassimo di fronte a uno di quei documentari impressionanti che in perfetto silenzio ti mettono davanti il verticale, colossale venir giù di intere pareti artiche di ghiaccio, con l’incerto poi fluttuare di immani e più che seminascosti iceberg. Dice infine l’io narrante, come fosse l’angelo del settimo sigillo: Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci nemmeno quando la stanza diventò tutta buia. Ma il buio di Carver non è inferno, è un illimitato purgatorio (autore compreso) che mai attenua la sua attenzione partecipe, immedesimata e in questo senso sempre, anche inapparentemente, purificatrice

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