Legge elettorale, dibattito da riprendere
Legge elettorale e democrazia. Il taglio del numero dei parlamentari, confermato con il referendum costituzionale del settembre 2020, ha generato un problema, una sorta di baco, che impone la riforma delle legge elettorale.
Il taglio potrebbe avere un effetto di distorsione della rappresentanza. È difficile, per fare un esempio, distribuire equamente tre cappelli tra cinque figli. Qualcuno andrà in giro a capo scoperto. Lo stesso rischia di avvenire in Regioni italiane che distribuiscono tre senatori, tra quattro o cinque partiti. Si è calcolato che in alcune Regioni un partito dovrà avere oltre il 30% dei voti, per eleggere un senatore.
Insomma, i senatori non possono farsi a fette piccolissime, come le torte quando ci sono troppi invitati, e dunque, se non possono essere affettati i senatori, significa che i collegi dovranno assegnarne di più. Altrimenti, il rischio è che le liste che godranno, nei singoli territori, anche di una piccola maggioranza conquisteranno una larga maggioranza nazionale dei seggi. Una maggioranza sproporzionata rispetto ai voti ottenuti.
Nel frattempo, le liste meno diffuse a livello nazionale o le liste minori vedranno compressa pesantemente o esclusa la loro rappresentanza in Parlamento. In molte Regioni italiane ci saranno solo parlamentari delle 2 o 3 liste maggiori, tagliando la rappresentanza proporzionale delle liste minori a favore delle liste più forti.
Questo meccanismo non sembra piacere a nessuna delle forze politiche (perché ognuno è grande da qualche parte, ma piccolo altrove) e rischia di rimanere in vigore solo perché le condizioni politiche attuali, di sostanziale blocco delle iniziative parlamentari, non permettono di trovare il consenso su nessuna riforma.
Nel frattempo il dibattito, anche tra i commentatori, è vivace. C’è chi auspica un ritorno al maggioritario e chi preferisce il proporzionale. Il proporzionale non c’è bisogno di spiegarlo: è un sistema che gli italiani conoscono e capiscono bene. Il maggioritario è invece quel sistema in cui in ogni collegio viene eletto un solo candidato, quello che prende più voti.
Chi auspica un ritorno al maggioritario , guarda ai Paesi anglosassoni, e spera di semplificare il quadro politico. Spera, in sostanza che con il maggioritario si riduca il numero dei partiti, o si arrivi addirittura al bipartitismo come negli Stati Uniti. Si tratta però di una mera illusione, come hanno dimostrato gli anni (dal 1994 al 2006) del cosiddetto Mattarellum (legge elettorale del 1993), un sistema che si avvicinava a quello anglosassone. Anni in cui il numero dei partiti è invece aumentato. La ragione è semplice. Non sarà comprando una camicia molto stretta che riuscirò a dimagrire. Più facile che si strappi la camicia.
I leader politici, in apparenza, sembrano tutti desiderare una riforma che consenta di nuovo ai cittadini di scegliere i propri eletti, con un meccanismo di preferenze o con sistemi più complicati. Ad un livello più riservato, ovviamente, la paura di ripristinare il meccanismo delle preferenze è tanta.
Negli ultimi decenni le antiche, ferree, discipline di partito, sono venute meno. Spesso i parlamentari giocano in proprio, anche quando devono il loro seggio al segretario del partito. Il timore è che il ritorno delle preferenze significhi rafforzare i potentati locali, i signori delle tessere, il clientelismo e le spese insostenibili per campagne elettorali “anni ‘80”. Tuttavia, il meccanismo scelto al posto delle preferenze non ha dato buoni risultati: i partiti non ne hanno approfittato per scegliere persone meritevoli e di qualità, ma spesso hanno ripartito i posti in base alla fedeltà al segretario del partito.
Ancora una volta, ciò che è auspicabile è che chi pone le mani alla riforma elettorale non lo faccia pensando al risultato che potrà ottenere, ma ad un sistema equo, che poi davvero possa durare nel tempo, garantendo che il Parlamento sia lo specchio del Paese. Se poi al Paese non piace quello che vede nel riflesso, non è certo gettando lo specchio che si risolve il problema.