Legge di bilancio 2020, una manovra di rattoppo
Il varo della manovra per il 2020 è stato davvero affannoso, non meno e forse perfino di più di quello dell’anno scorso: grande conflittualità verbale, anche all’interno della maggioranza; annunci prematuri dell’uno o dell’altro leader, poi smentiti o corretti (Manuela Perrone de Il Sole – 24 Ore ne ha contati 15); discussione parlamentare troncata e approvazione ricorrendo al voto di fiducia; approvazioni salvo intese; dimissioni di un membro del governo (il ministro Fioramonti, che ha deplorato le poche risorse destinate ad istruzione e ricerca).
Neanche il risultato è esaltante: il deficit resta anche quest’anno al di sopra del 2% del PIL, sì con il benestare della Commissione Europea (benevola verso il nuovo corso politico del nostro Paese), ma rinviando ancora la riduzione del debito pubblico, vera spada di Damocle della nostra economia; una parte delle nuove entrate (3 miliardi, meno dei 7 inizialmente preventivati) è affidata alla lotta all’evasione, cosa lodevole ma sempre un po’ aleatoria; la pressione fiscale aumenta, seppur solo di uno 0,1% del PIL; i tagli nella spesa dei ministeri (oltre due miliardi) sono ancora una volta del tipo “lineare”, ossia applicati senza riuscire a distinguere dove si dovrebbe tagliare di più e dove invece ci sono nuovi programmi da finanziare; poche risorse continuano ad essere destinate al futuro (scuola, ricerca, infrastrutture); e si potrebbe continuare.
Tuttavia, date le premesse, poteva andare molto peggio. Non dimentichiamoci che il Conte 2 ha ereditato l’ingrato compito di rattoppare gli strappi inferti alla fragile stoffa della nostra finanza pubblica dal Conte 1. In una delicata fase in cui si stava finalmente consolidando una ripresa (seppur lenta) dell’attività economica e il deficit del bilancio pubblico andava pian piano riducendosi, la maggioranza 5 Stelle – Lega aveva apertamente sfidato i richiami alla moderazione (europei e non solo) approvando nuovi programmi di spesa (in particolare quota 100 e il cosiddetto “reddito di cittadinanza”), con la promessa che maggior spesa e più pensionamenti avrebbero, non solo rilanciato produzione e occupazione, ma anche migliorato i conti pubblici.
L’esito, purtroppo, è stato molto diverso: un immediato arresto della crescita; un’impennata dei tassi di interesse sulle nuove emissioni di debito pubblico (così per tutta la durata del Conte 1; oggi siamo un punto più in giù, ma ancora molto sopra Spagna o Portogallo); un’ulteriore salita di oltre un punto percentuale del rapporto debito Pubblico/PIL; nessuna accelerazione nella crescita dell’occupazione rispetto a quella verificatasi all’anno precedente (ma con una composizione un po’ più favorevole alle posizioni a tempo indeterminato e alla componente giovane, due note positive in un quadro di tutt’altro segno).
In aggiunta ad una situazione macroeconomica deteriorata, il Conte 2 si era ritrovato con due pesanti lasciti: una struttura della spesa pubblica appesantita e ancora più sbilanciata verso la spesa corrente (in particolare pensionistica, quando l’Italia già prima spendeva in pensioni oltre il 16% del PIL, più di tutti i 36 paesi OCDE, salvo la sola Grecia); e poi il fardello di dover disinnescare ben 23 miliardi di “clausole di salvaguardia” (ossia di dover tamponare con nuove entrate o minori spese un “buco” pari a quella cifra dovuto a decisioni ad effetto ritardato prese dal Conte 1, in modo da non far scattare pesanti e impopolari aumenti delle aliquote IVA).
La manovra è troppo complessa per poterne discutere, non dico tutti, ma nemmeno i principali capitoli. Mi limiterò ad alcune riflessioni generali.
La prima è che avviare percorsi di cambiamento nell’attuale clima politico è estremamente difficile. Lo dimostra molto bene la vicenda delle tasse sulla plastica e sulle bevande zuccherate. Per riuscire ad orientare produzione e consumo in direzioni auspicabili dal punto di vista dell’ambiente o della salute occorre una prospettiva lunga: i produttori hanno bisogno di tempo per adattarsi, il che richiede che l’entrata in vigore delle norme sia sufficientemente dilazionata e possibilmente progressiva; e poi, prima di adattare i propri impianti le imprese vorrebbero essere sicure che l’anno prossimo una nuova maggioranza non farà marcia indietro.
Purtroppo oggi ogni governo è impegnato a mostrare in fretta il suo attivismo, e la vita politica si svolge con gli occhi puntati alle elezioni (magari solo regionali o comunali) dei prossimi mesi o, peggio, ai sondaggi settimanali. Un altro ostacolo al cambiamento è che in un dibattito urlato come non mai ha buon gioco la voce dei danneggiati o di chi ha interesse ad amplificarla.
In ogni provvedimento che non sia una nuova elargizione di benefici pagata da Pantalone qualche danneggiato ci sarà sempre: danneggiato giustamente in alcuni casi, perché di privilegi da tagliare ce ne sono in giro molti, in ambito fiscale, pensionistico, retributivo…; danneggiato ingiustamente in altri casi, quand’anche il provvedimento sia in sé meritevole (perfino il giorno in cui tutti i Paesi del mondo concordassero l’eliminazione degli armamenti, ci sarebbe inevitabilmente qualcuno che resta senza lavoro e su cui quindi poter speculare politicamente) . Di qui la necessità di distinguere tra danneggiato e danneggiato e poi, se necessario, di compensare in altro modo i più colpiti.
Un commento merita poi la parola “tasse”, parola tabù, al punto che chiunque oggi osi proporne una – ovvero l’aumento di una già esistente, quand’anche in sostituzione di un’altra – viene pubblicamente sbeffeggiato. Il bello è che spesso i critici che gridano di più sono proprio quelli che decidono o propongono nuove distribuzioni di denaro pubblico, incuranti del fatto che la spesa pubblica italiana supera già il 48% del Pil (il che colloca il nostro Paese al quarto più alto livello tra i 28 dell’Unione Europea) ed è già quaranta miliardi più alta delle entrate.
Per quanto cerchiamo di ingannarci, o di ingannare gli altri, nell’Italia di oggi non c’è più posto per la distribuzione, ma solo per la redistribuzione. Spazio ce n’è tantissimo! Come continua a ripetere Mario Baldassarri, professore di Economia e a suo tempo vice ministro dell’Economia e delle Finanze, quelle di cui si occupano le manovre di fine d’anno in fondo sono piccolezze – uno, due, pochi miliardi – mentre la spesa pubblica, anche togliendo i 60 e più miliardi di interessi sul debito pubblico, è dell’ordine di 800 miliardi all’anno. Lì dentro ci sono decine e decine di miliardi su cui ci sarebbe molto da discutere. Ma non si ha il coraggio di farlo, perché quei soldi venivano già dati l’anno scorso, e magari anche l’anno prima, quelli sono “acquisiti”.
E togliere qualcosa, magari anche di ingiustificato, a qualcuno che lo ha già avuto scatena reazioni ben più violente rispetto a negare qualcosa a chi dovrebbe giustificatamente riceverlo, ma finora non lo ha mai avuto. Una certa dose di continuità è necessaria e anche desiderabile, ma deve essere controbilanciata da una continua attività di verifica che ciascuna spesa sia utile e appropriata. Ma finora nessun governo ha mostrato molto coraggio nel toccare la spesa “acquisita”, tanto è vero che i vari “commissari alla spending review” nominati a questo scopo hanno presto dato le dimissioni. Una delle sfide principali per il futuro è proprio questa: a chi vuole governare si deve chiedere di dire cosa si impegna a togliere, a chi e perché, e poi di farlo davvero.
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