L’Eden a portata di mano

Stupenda Vivara, isolotto flegreo collegato a Procida ora riserva naturale. Fu snodo importante di traffici internazionali fin dall’età del Bronzo

Vivara: un isolotto a virgola, frammento di un antichissimo cratere sprofondato in mare, uno dei sette sui quali è fondata Procida. Una volta ci si doveva andare in barca dall’isola-madre, ma dal 1957 questo lembo di roccia e di verde che conta poco più di tre chilometri di perimetro le è congiunto da un ponte pedonale con funzioni anche di acquedotto che serve Ischia. Oggi proprietà privata e dal 2002 riserva naturale statale accessibile ancora a pochi, fu al tempo dei Borbone riserva di caccia il cui equilibrio naturale venne quasi del tutto sovvertito verso la fine dell’Ottocento, quando vigneti e oliveti sostituirono gran parte della splendida e selvaggia vegetazione mediterranea. Ora però la flora spontanea ha ripreso il sopravvento e anche il patrimonio faunistico s’è di molto arricchito, specie di uccelli da passo: usignoli, codirossoni, monachelle, canapini, cannaiole e pettazzurri.

Vivara ebbi la fortuna di visitarla un agosto di circa quarant’anni fa con mia madre: all’epoca l’isolotto era custodito dall’associazione naturalistica del “Trifoglio”, il cui presidente prof. Giorgio Punzo ci fece cortesemente da guida.

Dal casotto d’ingresso, dopo essere ascesi al pianoro superiore per una scala di pietra fiancheggiata da cespi odorosi di mirto, lentisco e ginestre, tra rami penduli di caprifoglio, proseguimmo per un viottolo che s’inoltrava nella fitta boscaglia di querce, corbezzoli, eriche. Passavamo di sorpresa in sorpresa. Chi poteva immaginare che a poche miglia dalla congestionata Napoli ci aspettasse un tale paradiso terrestre con vista stupenda sul golfo partenopeo? Nulla da invidiare alle più celebrate Capri e Ischia.

Il professore accennò anche a scavi archeologici in corso a Vivara, dove già negli anni Trenta, a punta Capitello, erano state rinvenute tracce di un insediamento umano verso la metà del XVI secolo a C., durante la cosiddetta Età del Bronzo. Ne sarebbe passato di tempo prima che venissi a sapere i risultati appassionanti di quelle ricerche.

Intanto, proseguendo il nostro percorso verde, eravamo sbucati in una radura, accanto ad un gruppo di case rurali di epoca borbonica, in abbandono. E qui, sotto un pergolato d’uva, facemmo conoscenza con due autentici “Robinson” che avevano preso stanza nell’isolotto disabitato per trascorrere delle vacanze scientifiche ed ecologiche: un “trifoglista” ventenne, che si dedicava a osservazioni naturalistiche, e un etnologo d’età più matura. Si aggiungeva ad essi un terzo personaggio: un coniglietto bianco addomesticato, che si lasciò prendere docilmente e si accucciò beato in grembo a mia madre. Forse un discendente di quelli immessi verso la metà del XVIII secolo da re Carlo III, insieme a fagiani e caprioli, a scopo di caccia?

Mentre sorseggiavamo un caffè in bricchi rinvenuti in una cucina fuligginosa, entrambi ci informarono dei loro esperimenti finalizzati ad affinare facoltà percettive in parte atrofizzate dalla vita “civile”: come l’andar su e giù al chiaro di luna per le ripe boscose di Vivara, trasportando pesi considerevoli. «È per prepararmi alle fatiche e agli imprevisti di una prossima spedizione in Africa» spiegò l’etnologo, mal celando la soddisfazione di essersi messo dietro le spalle – almeno per un po’ – impegni familiari e universitari. «Sapete – aggiunse con orgoglio –, ora da qui riusciamo a percepire perfino i discorsi che avvengono alla Chiaiolella». Stentammo a crederci. Una volta sull’aereo belvedere che guardava verso quella spiaggia procidana formicolante di bagnanti, ci arrivò alle orecchie un brusio come di api, a tratti anche qualche scoppio di risa, ma quanto a distinguere parole…

Fin qui i ricordi di quella lontana escursione a Vivara, rimasta unica. Nel frattempo i sistematici scavi a cura dell’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli hanno fatto dell’isolotto «uno dei capisaldi geografici per lo studio e la comprensione dei traffici marittimi che, nel corso del II millennio a. C., dovevano collegare le aree costiere e insulari italiane con le regioni del Peloponneso e gli ambienti insulari dell’Egeo»: sono parole del prof. Massimiliano Marazzi, dal 1994 responsabile scientifico della missione archeologica volta a indagare, anche con esplorazioni subacquee, questo particolarissimo sito del golfo di Napoli (1).

Oggi sappiamo che i contatti tra mondo greco-egeo e Occidente mediterraneo, finalizzati in primo luogo all’acquisizione di metalli come il rame e lo stagno, furono intensi e regolari già dalla metà del XVII secolo a. C. E che, connessi alla circolazione e allo scambio di armi, gioielli, profumi e spezie, ma anche di materie prime rare come l’ambra proveniente dal Nord Europa, «portarono alla creazione di veri e propri empori internazionali, luoghi di acculturazione e sperimentazione di nuove forme di produzione».

Uno di questi empori fu appunto Vivara, che agli inizi del XVII secolo doveva presentarsi popolata e risuonante di attività, ben diversa dunque da come la ricordavo: silenziosa e in suggestivo isolamento. Fra l’altro, in quell’epoca remota il livello del mare era di ben 14 metri inferiore all’attuale come conseguenza del fenomeno di bradisismo tipico di tutta l’area flegrea. La sommità dell’isolotto e parte dei suoi pendii tufacei erano occupati da grandi capanne rettangolari costruite su terrazzamenti artificiali; un sistema di scale intagliate nel tufo (e oggi in parte sommerso) collegava l’abitato superiore con l’area portuale, dove si apre lo stupendo golfo di Genito. «Qui – spiega il prof. Marazzi – i navigli potevano essere tirati in secco e le merci scaricate e stoccate nelle grotte naturali che si aprivano sulla platea del pendio orientale. Alcuni di questi ambienti, oggi sommersi, dovevano possedere strutture lignee antistanti…»: un po’ come usano fare tuttora i pescatori procidani, che hanno adibito a magazzini e ricovero di barche le cavità rocciose che s’affacciano sulle spiagge.

L’abbondanza di vasi di tipo egeo e di giare da trasporto di produzione non locale testimonia che l’arcipelago flegreo era già meta e luogo di snodo di traffici che collegavano le regioni dell’alto Tirreno con il Mediterraneo orientale. Altri reperti, invece, confermano la presenza di una produzione locale non solo nell’ambito ceramico, ma anche in quello metallurgico.

E poi i cosiddetti tokens, sorta di “gettoni” quadrangolari, triangolari e circolari, creati apposta o ricavati dal riutilizzo di cocci: anche a Vivara, come in altre culture insulari, sono stati rinvenuti questi oggetti che servivano a contare e registrare le transazioni e le quantità di beni immagazzinati. Inoltre lo scavo di una capanna a Punta d’Alaca ha fruttato nel 1997 la scoperta di una “tavoletta numerica” in tufo simile a quelle diffuse nel Vicino Oriente. E nel settembre 2017, sempre nel medesimo sito, quella di un osso lavorato che reca incisi dei segni grafici, uno dei quali riconducibile alla parola “vino/vite”. Nell’uno e nell’altro caso la conferma, già nell’età del Bronzo, di pratiche scrittorie o di registrazione dati simili a quelle in uso nel bacino orientale del Mediterraneo? Su questa ipotesi affascinante si stanno concentrando gli studi.

1)Cf: “Vivara, isola del vino?”, in Archeo,marzo 2018.

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