Lear: viaggio nell’oscurità
È nero, imponente, il Lear pensato dal regista inglese Declan Donnellan per la Royal Shakespeare Company. E giovanissimi sono i sedici attori della nuova Academy, da lui formati per sondare l’animo umano di oggi attraverso un classico: King Lear, appunto. Vestito in abito da sera – come lo sono gli altri protagonisti – il re sale in scena dalla platea lasciandosi dietro le figlie. Conquisteranno anch’esse il palcoscenico dopo aver sfoggiato false parole d’amore verso il loro padre, in procinto di abbandonare il potere. Sedotto dalle altisonanti frasi, egli spartirà il suo regno in due anziché in tre: alle perfide Goneril e Reagan, e negandolo, invece, fino al ripudio, alla sincera e amata Cordelia, incapace di usare frasi adulatrici, ma l’unica che veramente lo ama. Ne sarà ripagato con atroci ricompense: povero, vecchio, malato e disprezzato, trattato peggio di uno schiavo e cacciato fuori di casa in una notte di tempesta biblica. Momento tra i più intensi, quando Lear si trova solo col Fool all’addiaccio, essa è ricreata con una bella invenzione: un lungo telo nero calato dall’alto, avvolgente e mosso a vista, tra l’infuriare di agenti atmosferici riprodotti con artifici di suoni. Il dolore e la follia dell’anziano re si ripercuote nel fragore del tuono; e, come fiaccole del male, brillano a turno nell’oscurità che li inghiotte, i rappresentanti del tradimento, del calcolo, della menzogna. In questo spettacolo dove, sul vuoto scenografico – solo sedie e panche – vive l’azione corale dei bravissimi giovani, la componente politica del dramma – inteso come disegno metaforico di un conflitto non solo generazionale, bensì tra forze in lotta per il potere – non ha qui troppo rilievo. Perché a prevalere, nel ritmo incalzante, è il percorso dell’uomo nel buio del cuore e della mente, la messa a nudo di un mondo senza sicurezze ontologiche, senza speranza di catarsi, dove solo i ciechi (il torturato Gloucester) e i folli riescono a vedere la realtà. Una realtà sporcata dal progressivo degrado delle coscienze che sembra simboleggiato dagli abiti macchiati di tutti gli interpreti, sempre in scena nella seconda parte. Culminante nello strazio sul corpo morto dell’amata Cordelia, del potente Lear di Nonso Anozie, che catalizza la scena con la sua interpretazione febbricitante. Danza: tra le sequoie della California Pina Bausch va componendo, da anni, su commissione, folgoranti ritratti – o caricature? – di un lembo di mondo. Col suo Tanztheater Wuppertal, ama sostare – secondo un felice metodo di lavoro – in città ogni volta nuove, raccogliendo immagini ed emozioni. Le filtra e assembla, poi, nel confronto creativo con i suoi ballerini. Per riversare in scena un album sull’umana condizione del vivere. Un collage, incatalogabile per stile, di danza, recitazione, musica. Che ritragga Lisbona, Hong-Kong o Budapest, non importa. Di ciascuna città vive un’atmosfera, un contesto, una suggestione. Materiale che s’apre ad infinite varianti teatrali, sulle quali domina un forte elemento scenico. In Nur du – spettacolo del ’96 dedicato a Los Angeles e approdato trionfalmente al Teatro San Carlo di Napoli – esso è una foresta pietrificata della California. Giganteschi tronchi di sequoia, uno dei quali, ferito a metà altezza, a formare una nicchia dentro cui, di tanto in tanto, si rifugia un uomo solitario. Ed è la solitudine la cifra esistenziale che si coglie in Nur du (“solo tu”, titolo derivante dalla canzone Only you dei Platters). Non a caso i momenti più belli sono gli assolo di danza, sempre strepitosa ma poca, purtroppo, rispetto alle tre ore di spettacolo, alla cui compattezza non giova qualche lungaggine. Contenitore determinante della temperatura dei sentimenti suscitati dalla Bausch è la musica. In Nur du sono brani di jazz, cha-cha-cha, new age e, come sempre, la musica latinoamericana insieme a folate di struggente fado. Dentro questo tessuto sonoro scorre una folla che stira velocemente camicie sopra delle scatole, marcia schierata a terra, o sbuca dal bosco come un branco di lupi cattivi; forma una poltrona umana, o un’onda sopra cui fluttua una donna, mentre una grande balena cala dall’alto al suono di una sirena. Si rincorrono, tra grazia e ironia, scenette di miti hollywoodiani, manie e foghe di atletismo, esasperazioni del lifting, passerelle di donne svampite e isteriche, e tanti altri luoghi comuni di un’America stravagante e contraddittoria, nei quali possiamo trovare le nostre debolezze, i nostri tic, i giochi, i sogni. E quel bisogno di rapporti umani profondi comune ad ogni latitudine geografica.Come pure la sofferenza dell’incomunicabilità e dell’indifferenza, espressa dall’inutile tentativo di un uomo di scuotere l’impassibilità di una donna: portando ripetutamente le mani di lei sul suo volto, che ricadono inerti; sollevandole poi una gamba; soffiandole sui capelli. Per andarsene infine entrambi solitari. G.D.