Lear, il bisogno di un padre
C’è del metodo in Serena Sinigaglia. Una capacità di mettere in scena storie attinte dai classici per raccontare vicende personali. Approccio che avvalora ulteriormente la celebre frase su “Shakespeare nostro contemporaneo”. Con Lear, ovvero “tutto su mio padre” la giovane regista fa emergere il dolore per un rapporto mancato: l’assenza del padre. Sentita come nostalgia, come orfanezza di una generazione. Figura svalutata, forse perchè disattenta, latitante, ma di cui si sente più che mai il bisogno. Perché, mancando i riferimenti, subentrano il disorientamento, l’inquietudine, le insicurezze. La storia narrata da Shakespeare del Re che diventa finalmente uomo dopo esser passato attraverso la sofferenza causata dal proprio errore di giudizio nei confronti delle sue stesse figlie, diventa una riflessione sull’autorità, sulla vecchiaia, sul potere. Lo stesso che acceca anche i figli nel passaggio delle consegne. Testo potente che la Sinigaglia traduce con straordinaria forza comunicativa, grazie ai suoi giovani attori dell’Atir. Tutti figli. E, a turno, tutti Lear, alternandosi nel presentarsi con della biacca sul viso, una calotta in testa e una casacca dorata. Il Re assume così le sembianze di un clown, quasi a giustificare quella vena di follia che aleggia in tutta l’opera. E al circo – luogo della salvezza e della trasformazione di Lear – allude la nuda scena di Maria Spazzi. Costruita prima con solo dei piedistalli, poi avvolta da stoffe leggere e trasparenti usate come stendardi, trasformate in campo di guerra, adibite a reggia. Simulano persino il mare in tempesta. Per diventare infine un tendone da circo. Dove al centro i figli verranno a deporre gli oggetti e i costumi della recita. Ultima ad entrare Cordelia, la figlia fedele di Lear, ripudiata, ritrovata e persa definitivamente. Il cui amore però lo ha tenuto in vita. E con una dedica al proprio padre proiettata sui velari, la Sinigaglia suggella uno spettacolo da non perdere.