Le vittime come veri padri del sinodo
Avviandosi verso la sua fase conclusiva, l’assise vaticana conosce delle turbolenze interne che non devono far dimenticare la prospettiva del Vangelo, dei poveri, del perdono
Il sinodo si avvia verso la parte finale, quella dei documenti e delle decisioni. E all’improvviso irrompono comportamenti dettati dalla piccola e penosa politica ecclesiastica che cerca di coinvolgere il papa sulla dottrina e sulle procedure, come se questa fosse la via maestra per arrivare a una conclusione secondo il Vangelo.
Circa un anno fa il papa, parlando a Istanbul, chiedeva ai cristiani l’ascolto: l’ascolto dei poveri, l’ascolto delle vittime e l’ascolto dei giovani. Questo invito vale in modo particolarissimo oggi di fronte alle vittime del Medio Oriente, da Gerusalemme a Damasco a Baghdad, ad Ankara, alla Terza guerra mondiale fatta a pezzi. E si lega con le parole dette negli Stati Uniti sulla Chiesa serva e povera, sulla Chiesa di comunione. Tanto vero che, a conclusione della prima settimana di lavori, papa Francesco ha posto la sua voce autorevole: «Seguiamo con profonda preoccupazione quanto sta avvenendo in Siria, in Iraq, a Gerusalemme e in Cisgiordania, dove assistiamo a una escalation della violenza che coinvolge civili innocenti e continua ad alimentare una crisi umanitaria di enormi preoccupazioni. La guerra porta a distruzione e moltiplica le sofferenze della popolazioni. Speranza e progresso vengono solo da scelte di pace».
Con queste parole il papa richiama i padri sinodali ad ascoltare le vittime, le famiglie delle vittime, le famiglie dei poveri che sono squassati dalla guerra. Altro che i piccoli ricatti e le piccole polemiche ecclesiastiche, prigioniere di una visione di potere senza futuro. Il sinodo non può che misurarsi sulle parole delle vittime che chiedono perdono e misericordia. Quel perdono e quella misericordia che sono il volto stesso di Dio.
Se la chiesa invece di ascoltare e guardare le vittime guarda e ascolta le parole del potere ecclesiastico, rischia di diventare afona e cieca di fronte alle sfide del mondo, innanzitutto la guerra. Come Gesù nel suo viaggio incontra e frequenta famiglie sfigurate dal dolore della morte del figlio, cosi dovrebbe avvenire oggi nell’aula sinodale. Basti ricordare nei Vangeli la vedova di Naim e sua figlio, la Sirofenicia con un figlio gravemente ammalato, la figlia di Giairo. Oggi ci sono i nomi degli uccisi di Ankara piuttosto che a Gerusalemme, in un martirologio senza fine. Credo che i padri sinodali siano chiamati a mettersi in ginocchio a fare penitenza, perché questo ascolto delle vittime sia a misura della verità e della misericordia crocifissa.
Il Vangelo chiama il sinodo ad un’altra strada, quella della verità e della gioia del Vangelo. Le famiglie, che oggi piangono uno o più figli a causa della guerra, saranno consolate dalla tenerezza del Dio di Gesù Cristo non dalle formule della dottrina di coloro che guardano alla purificazione dell’esteriorità del piatto, mentre all’interno rimane violenza e rapina. Peraltro le grandi parole del Vangelo perdono, misericordia, riconciliazione riguardano al tempo stesso la vita dei popoli e la vita delle comunità e delle famiglie. Sono il cuore stesso del Vangelo e hanno la forza di cambiare i cuori e le relazioni tra persone, di disarmare i violenti nella mano, nella mente e nella vita.
Dunque il sinodo non come luogo di rivincite ecclesiastiche ma come una grande liturgia della pace, della fraternità, in cui le vittime di ogni violenza e di ogni guerra indicano la via della penitenza e della conversione che diventa la via della gioia del Regno, e dove lo Spirito ci guida alla verità tutta intera. Nel mistero dello Spirito Santo le vittime annunciano il perdono, che in ginocchio dobbiamo accogliere e che riguarda l’umanità intera. E al tempo stesso dobbiamo cogliere lo sguardo di Dio che custodisce tutte le vittime colpite lungo la strada, di cui ogni famiglia, tutte le famiglie sono chiamate a prendersi cura.
Questa è la vera misura del sinodo, in questo tempo di grazia e di Vangelo.