Le visioni di Turner
Dimenticare la città di Canaletto, bagnata dal sole che ne scandisce razionalmente le immagini; scordare Guardi con la sua aria veloce e malinconica. William Turner – che pur conosce bene i Vedutisti – è altra cosa. Un innamorato, di una città sfuggente per mille angoli, inseguita da una luce che ora la rivela ora la nasconde. E proprio per questo è affascinante. Pure, un miraggio. Turner, che vi soggiorna per un mese in tutto nell’arco di tre visite (1819, 1833, 1840) afferra questa città unica, ne fa sua l’atmosfera: ma vi lascia intatto il mistero. Non la descrive come i Vedutisti, non la indaga come gli Impressionisti; la ama, tou-court. Un amore che diventa passione per le albe e i tramonti, i cieli nebbiosi e quelli gelidi, le architetture le folle le acque: e, soprattutto, nei meravigliosi acquerelli, per le notti. Venezia città della notte è per Turner evocazione di un sentimento primordiale di bellezza vicina- lontana che l’anima di un inglese, abituato alle nebbie atlantiche, romanticamente avverte come qualcosa di infinito, una magia carica di emo- zioni, sempre tuttavia trattenute. Le dedica, Turner, una pittura fatta di allusioni, con una pennellata soffice sino a far delle tele vapori di luce, incurante di ogni verosimiglianza o di qualsiasi regola prospettica. Obbedendo alla voce del sentimento, la sua Venezia risulta, di fatto, quello che per chiunque la contempli anche un solo giorno, rappresenta: l’immagine di una bellezza senza tempo, impossibile quasi ad esistere: una visione di luce assoluta, e fragilissima. Ci sono tele, nella rassegna, dove le fisionomie dell’ambiente scompaiono sotto il bagliore accecante che rende l’opera un monocromo bianco, moderno come un Mondrian solare. A volte questo chiarore si ritira ed ecco comparire, ad esempio, l’isola di San Giorgio in un rapido accenno, rosa come il tramonto che l’investe, o pallida del rigore invernale (che ci passa il suo brivido). Oppure, Piazza San Marco sotto la tempesta o nel fulgore dello Sposalizio del mare. Ecco la città come gli appare, la prima volta, da lontano: un baluginare bianco-rosso indistinto, da cui poi emergerà il miracolo. E poi, le notti. Accen- dono lumi nel buio, come ancor oggi, osservandola dal mare: un miraggio di brillii. Turner vede Venezia come un incantesimo continuo. La evoca con tocchi liquidi, ma corposi, sfaldando il colore, rendendo evanescenti i profili (già prima di un Monet). Poeta dell’emozione, la comunica con immediatezza tranquilla. Le sue vedute colgono il gioco vario della luce e del colore con un senso atmosferico sfumato, ultrasensibile, che sottintende un’osservazione diuturna precisa, come dimostrano i quaderni di appunti di questo infaticabile disegnatore.Turner infatti possiede il senso della storia. Ha studiato la grande pittura veneziana – Tiziano Tintoretto Veronese Tiepolo – ed il suo cromatismo pulviscolare riecheggia questa lezione. Non c’è forse la visionarietà di un Tintoretto o di un Tiepolo in certe vedute dall’alto – o se si preferisce – da un punto estremo dell’orizzonte, a dar l’immagine di una città surreale, metafisica, dal biancore accecante; ma dove tuttavia in primissimo piano vengono definite cose e persone a darne l’idea della vita? Pure, nonostante l’amore di Turner per il passato, la sua pittura è altra cosa, anche rispetto al suo tempo. Come se avesse colto in Venezia il centro di una luce totale, egli la frange in mille irradiazioni, con tocchi allusivi che producono bagliori di un attimo. Le cose si rivelano e subito ritornano all’unica fonte luminosa. Perché la sua pittura tende – inesorabilmente – all’astrazione. Ma quanto mai ricca di stupore. Con questo sguardo di meraviglia anche noi, a decenni di distanza, possiamo scoprire quello che forse egli cercava, nella città sulla laguna: toccare, senza toccare, per un istante, cosa è la luce. Per questo Venezia resta, pur nella sua fisicità, un luogo del miracolo.