Le priorità del Paese e quelle della manovra economica

Dalle pensioni “per far posto ai giovani” al rinvio delle assunzioni nella Pubblica amministrazione, il documento economico suscita molte perplessità. Un'opinione

L’accordo con la Commissione europea ha scongiurato gli esiti più drammatici della manovra economica di bilancio pubblico, e ha fatto scendere l’allarme mercati finanziari dal rosso intenso ad un meno inquietante color arancione (tracolli immediati non sono più in vista, anche se uno spread di 250 punti, oltre 100 punti al di sopra di quello spagnolo e quasi 200 punti al di sopra di quello francese, continua a segnalare – e al tempo stesso a creare – seri problemi di sostenibilità di lungo periodo).

Spostiamo allora l’attenzione dal “quanto” al “cosa”, e chiediamoci con quali intenti ci viene chiesto di fare tanti sacrifici (quelli già fatti per i tassi di interesse sul debito pubblico più alti e per la perdita di valore dei titoli pubblici, e quelli da fare da qui in poi per il maggior debito pubblico).

Non può non saltare agli occhi che uno dei due principali obiettivi della manovra è di mandare in pensione prima un certo gruppo di lavoratori, di una ben precisa fascia di età (di questo si tratta, perché il costoso provvedimento – 4 miliardi nel 2019, più di 8 nei due anni successivi – è a tempo e non sarà certo facile trovare né i soldi né gli accordi politici per poi rinnovarlo).

L’obiettivo è certamente buono (si tratta di lavoratori che nella fase più acuta della crisi si son visti cambiare in peggio da un giorno all’altro le soglie di età); ma buone sono anche molte altre cose che si possono fare con le sempre scarse risorse pubbliche e insistere su una significa rinunciare alle altre.

Siamo sicuri che accelerare il pensionamento di questi lavoratori sia un’assoluta priorità a cui subordinare tutto il resto? I dubbi sono molti, anche pensando che i problemi pensionistici più seri li avranno le generazioni più giovani (la pensione per chi ha avuto carriere lavorative regolari, partendo da percentuali attorno al 75% del reddito per chi ha finito di lavorare nel 1990, sta scendendo progressivamente e per chi finirà dopo il 2030 si prevede che sarà inferiore al 60%, e cosa succederà ancora più avanti è difficile dirlo).

Per allontanare questi dubbi i proponenti hanno fatto leva su un’efficace argomentazione di supporto: mandare in pensione questi lavoratori è in realtà un servizio ai giovani, perché finalmente potranno andare ad occupare i posti (alcune centinaia di migliaia) che quelli lasceranno liberi. A prima vista l’aritmetica sembra tornare, ma gli studi effettuati su casi simili stimano un numero di assunzioni di giovani pari ad una frazione modesta dei pensionamenti. Molto si è discusso su questa frazione e se valga comunque la pena di fare quest’operazione pur di dare qualche prospettiva ai nostri giovani.

Poi, però, ti arriva l’ultima versione della manovra, dove una delle soluzioni escogitate per ridurre le spese è il blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione (per inciso, l’unico datore di lavoro di cui si possa bene o male programmare la copertura dei posti lasciati liberi). Il che svela tristemente quale sia ancora alla fin fine la tendenza vincente, tra accontentare l’elettorato maturo e dare speranze ai giovani.

Sulla manovra, complessa come sempre, ci sarebbe ovviamente molto altro da dire, ad esempio rammaricarsi che l’altra vittima delle priorità del governo sia il fondo per gli investimenti (tagliato da 9 miliardi a circa 3 e mezzo) e apprezzare invece che si cerchi di tagliare sulle super-pensioni, anche se l’ammontare ricavatone è per ora poca cosa.

La speranza è che, riconoscendo che questo delicato insieme di misure è stato approvato con modi e tempi più inappropriati del solito, i primi mesi del prossimo anno ne consentano un serio ripensamento, e nella direzione di guardare di più al futuro.

 

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