Le verdi dimore di Hudson
Se dovessi consigliare un autore da portarsi in vacanza, occasione privilegiata per un contatto più diretto e autentico con la natura, non esiterei a proporre William Henri Hudson, a costo di rintracciare qualcuna delle sue opere anche nelle più sperdute biblioteche.
Ciò che in esse attrae fortemente è l'intima adesione alla natura, vista come il serbatoio originario di ogni manifestazione vitale e descritta con l'animo del poeta, con immagini animate da quella prodigiosa vividezza del particolare che è il segreto dell'arte di questo naturalista-scrittore nato nel 1841 presso Quilmes, villaggio sperduto nella pampa, da genitori di origine inglese emigrati dagli Usa in Argentina e diventati allevatori di ovini. Dopo una giovinezza errabonda per tutto il Sudamerica, nel 1869 Hudson si trasferì in Inghilterra come promettente collaboratore della Società Zoologica di Londra, città dove trascorse il resto della vita, dividendosi fra lo studio appassionato della natura e l'attività di scrittore.
Della sua felicità e facilità nel narrare perfino un Conrad si stupiva: «Non è possibile dire come quest'uomo raggiunga i suoi effetti. Scrive come l'erba cresce». E ciò sia quando rievocava gli anni della libera giovinezza trascorsa nella pampa argentina, sia quando nella maturità, evadendo dal chiuso della sua abitazione per immergersi nella campagna inglese, disegnava deliziosi quadretti da “viaggiatore in piccole cose” (dal titolo di un suo libro).
Del resto, era difficile sfuggire al fascino che emanava lo stesso personaggio, un uomo di singolare bellezza, un vero gigante alto due metri, dai modi gentili e accattivanti, dal colloquiare che incantava.
Più che un vero narratore tuttavia, Hudson si considerava un uomo di scienza. E tale appare nei suoi studi naturalistici, anche se in lui il rigore scientifico è trasfigurato dalla sensibilità con cui descrive i fenomeni più insoliti e nascosti del mondo animale e vegetale, dalla vivacità delle osservazioni e dalla delicatezza con cui racconta le piccole storie delle creature dei boschi.
Possedeva – ha osservato Giorgio Celli – «la straordinaria capacità di rendere problematicamente partecipe il lettore della bellezza, dell'armonia e della fragilità di un mondo costantemente minacciato».
Eppure, come Tolstoj rimane per tutti l'autore di Guerra e pace, di Anna Karenina e di Resurrezione, nonostante abbia ripudiato in vecchiaia queste opere a vantaggio di quelle di carattere filosofico e religioso, allo stesso modo la fama di Hudson è legata a La terra rossa e a Verdi dimore, più che a Ornitologia argentina o al Libro di un naturalista.
Ma a cosa si deve questo suo fascino come uomo e come scrittore? A me sembra che, come pochi, abbia avuto il dono di guardare per capire, e capire per amare. Dono certamente affinato dalle esperienze dolorose vissute fin da ragazzo quando, nella fattoria paterna, fu colpito da febbri reumatiche che lo costrinsero a lungo inattivo a casa, lui che amava la vita all'aria aperta immerso in quel miscuglio di popoli e culture che formano la popolazione della pampa: il bilingue Guillermo Enrique dedicò allora quel periodo a leggere e studiare, maturando così una sensibilità riflessiva e contemplativa nei riguardi sia della natura che dell'uomo.
Al suo cuore ormai compromesso per sempre si aggiunsero in seguito altre traversie di salute (verso i vent'anni il rischio della cecità), stenti e privazioni fin sull'orlo della vecchiaia… sì perché, malgrado la prospettiva quotidiana di una morte improvvisa, Hudson visse una vita lunga e operosa, uscendo da ogni prova rafforzato. Morì nel 1922.
Suo romanzo d'esordio è La terra rossa, poco considerato all'uscita nel 1885 (ma dallo scrittore argentino Jorge Luis Borges fu ritenuto un capolavoro della letteratura “gauchesca” ed «uno dei pochissimi libri felici che ci siano al mondo»). Narra dei vagabondaggi di un inglese in cerca di lavoro nell'interno dell'Uruguay, “terra rossa” anche per tutto il sangue versato durante le guerre civili, e delle avventure in cui si trova coinvolto in quel mondo primitivo e affascinante per la sua vitalità. Seguì L'età del cristallo del 1887; ma soltanto nel 1892 con Un naturalista a La Plata, subito salutato come un classico nel suo genere, ci si accorse del talento di Hudson. L'improvviso successo di Verdi dimore del 1904 risultò trainante anche per La terra rossa, e con esso arrivò anche un relativo benessere economico.
A metà strada tra il romanzo d'avventura e la favola, Verdi dimore ha come scenario le lussureggianti foreste amazzoniche della Guiana. Qui si rifugia Abel, un venezuelano implicato in torbidi politici a Caracas. L'idillio che nasce tra lui e Rima, strana e bellissima creatura che si esprime in un linguaggio simile al canto degli uccelli ed è personificazione della natura incontaminata, ha il sapore di un ritrovato Eden. Ma l'ottusità e la crudeltà degli uomini, che scambiano Rima per un genio malvagio, darà un finale tragico alla vicenda. Il monito di Hudson: in comunione con la natura l'uomo sperimenta la gioia di esistere ed allo stesso tempo è messo di fronte alla morte col suo mistero; da lì potrebbe attingere saggezza e risorse spirituali, ma purtroppo è lui stesso stoltamente a devastare quello “specchio” del Creatore, arrivando a sentire Dio stesso come un nemico, con conseguenze nefaste.
Con Un mondo lontano del 1918, quasi il suo testamento spirituale, lo scrittore – giunto alle soglie degli ottant'anni e fortemente a disagio nella sovraffollata e industrializzata Londra – rivisitò con straordinaria capacità evocativa gli anni della fanciullezza immersa nel paesaggio naturale ed umano della pampa, trasmettendo al lettore la gioia e lo stupore delle sue scoperte.
Incurante del prestigio conseguito grazie ai tardivi successi letterari, Hudson seppe mantenersi modesto. Quanto al denaro, il suo ideale era la povertà: «Come san Francesco – ebbe a dire scherzosamente –, fuorché per le scarpe ai piedi… e i miei editori mi hanno sempre religiosamente aiutato a mantenerla!».
Preferiva l'isolamento agli ambienti artistici, nei quali si sentiva spaesato; ai suoi amici letterati appariva personaggio atipico, uno scrittore geniale, «solo un poco sprecato nel suo eccessivo interesse naturalistico».
Di solito pensosamente mite, incline alla malinconia, si sdegnava solo per stigmatizzare la brutalità di quanti abusano della natura e delle sue creature. In tal senso le sue battaglie ecologiste ante litteram ne fanno un antesignano dei naturalisti e degli animalisti.
Nessuna prova, nessuna frustrazione riuscì comunque ad attenuare il suo amore per la vita, dono fugace di cui non si è mai abbastanza grati; ed è per questo atteggiamento positivo che i suoi scritti, così rigeneranti per lo spirito, possono essere considerati quasi un antidoto al “male di vivere” di cui soffre la società odierna.