Le ultime odissee

Bellezza e impegno. Binomio inscindibile per Ariane Mnouchkine e il suo Théâtre du Soleil, fin dagli esordi del 1964. Perché il teatro “deve fare parte del mondo e trasmettere umanità, sentimenti, pensieri”. Sia affrontando Shakespeare o le epopee dell’India e della Cambogia; sia denunciando il dramma dei tibetani o dei sans-papiers, lo sguardo della regista francese si posa sull’uomo per mostrarne la sofferenza. Fino a farla propria. E condividerla. Può succedere allora che non si assiste solamente ad una messinscena, ma la si vive. Così è stato con Le dernier caravansérail, odissee di destini in fuga da paesi devastati dalla guerra, dalla povertà, dalle discriminazioni, dalle tirannie. Nella lunga frequentazione con i rifugiati di un grande campo profughi nel nord della Francia, la Mnouchkine ha raccolto storie che parlano di perdita, di separazione, di violenze, intrise di nostalgia e di speranza, componendo un affresco drammaturgico corale, narrativamente potente pur nella sua struttura semplice sotto forma di lettere ai propri cari. L’avvio è folgorante: un fiume di stoffa fluttuante diventa un mare in tempesta da attraversare per trovare libertà sull’altra sponda. Lo spettacolo procede per quadri con piccole scene trasportate su carrelli mobili: una roulotte, una casa, una cabina telefonica, una rete tagliata per creare un varco clandestino gestito da trafficanti di destini in fuga. Sono frammenti di storie – dall’Afghanistan al Kurdistan, dall’Iran alla Cecenia all’Africa – che si materializzano al centro di un vasto palcoscenico dove, nel disegno di un vortice, sembrano poi dissolversi. Niente e nessuno poggia mai per terra. Gli attori entrano ed escono scivolando su tavole con ruote manovrate da altri: a suggerire l’idea di uno spostamento su distanze infinite. Il teatro diventa così terra di immigrazione, crocevia di un’umanità dimenticata e senza voce. Che la Mnouchkine trasforma in grido silenzioso. CALLAS: IL CANTO SI FA DANZA Una donna, Maria Callas. Fragile, appassionata, malinconica. Un’artista. Dalla voce unica, “irraggiungibile fino al soprannaturale”. Non poteva esserci colonna sonora più intensa per nutrire la creatività di Micha van Hoecke, per restituirci, della grande cantante lirica, un affresco dell’anima, vivo ed emozionante. Eludendo la trappola dell’agiografia, il coreografo russobelga, alchimista di magie teatrali, non crea passi sulla musica, ma evoca una sua visione interiore. D’amore. Intraprendendo un viaggio per riportare in vita Euridice-Maria, Misha sembra identificarsi in Orfeo. E su un brano dall’omonima opera di Gluck inizia Maria Callas, la voix des choses. Scorrono, quindi, libere associazioni: stati d’animo, suggestioni della memoria, eroine d’opera – Medea, Margherita, Rosina, Isotta, Carmen -. Schegge di vita immerse in luci di candele, tra maschere tragiche e orientali, drappi neri che calano dall’alto, nastri rossi aggrovigliati tra i corpi. Ai molti altri simboli si aggiungono rumori di strada, echi di registrazioni dal vivo; e le voci, anch’esse incomparabili, di Edith Piaf e di Billie Holiday. Nel trasfigurare, a sua volta, il canto della Callas in un distillato di raffinato teatro-danza denso di rimandi – Béjart, Bausch, Graham -, Misha ci regala uno spettacolo di struggente bellezza espressa dalla impeccabile bravura dei ballerini del suo Ensemble.

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