Le truppe Usa lasciano l’Iraq
Dopo oltre sette anni, la missione statunitense nel Paese è ufficialmente finita. Dai giornali d'oltreoceano, le reazioni e le questioni che rimangono aperte.
«L’operazione Iraqi freedom (libertà irachena) è finita»: così Barack Obama ha esordito nel suo discorso dallo Studio ovale la sera di martedì 31 agosto, nel suo secondo discorso alla nazione in prima serata (l’altro era stato per la perdita di petrolio nel Golfo del Messico). Dopo oltre sette anni, 740 miliardi di dollari spesi, 4.400 morti americani – di cui il New York Times ha costantemente pubblicato le foto sul proprio sito, a mo’ di vecchio bollettino di guerra – e almeno 70 mila morti iracheni, la guerra è ufficialmente finita. Rimarranno “solo” 50 mila soldati con funzione di addestramento e supporto delle truppe irachene, fino al termine – prorogabile – di dicembre 2011.
Un annuncio che ha sollevato molti animi, ma anche molte perplessità. Se Obama ha sottolineato che questa era stata una delle promesse della sua campagna elettorale, dallo schieramento repubblicano è partito subito il fuoco di fila: John Boenner, capogruppo del partito alla Camera, ha sottolineato come sia stato possibile andarsene soltanto grazie all’aumento delle truppe deciso nel 2007 da Bush, e al quale l’attuale presidente si era opposto. Il Wall Street Journal, tradizionalmente conservatore, non manca di sottolineare gli importanti passi avanti compiuti in questi anni dal Paese mediorientale, ma non tace nemmeno su ciò che è risaputo e che anche altre testate denunciano: ossia che gli Stati Uniti se ne stanno andando lasciando un Paese senza un governo dallo scorso marzo, che le violenze sono tutt’altro che finite, che in molte zone del Paese e della stessa capitale mancano luce e acqua, e che gli iracheni temono un ritorno ai tempi peggiori. Come nota quasi ironicamente il New York Times, quando la guerra era iniziata nel 2003 le maggiori paure degli americani erano il terrorismo internazionale e le armi chimiche; ora sono l’economia che non riparte e le bombe rudimentali che non cesseranno di mietere vittime tra i soldati che rimangono. Insomma, chiosa il Washington Post, la scelta del momento in cui andarsene appare piuttosto arbitraria, in quanto non legata ad uno specifico miglioramento della situazione del Paese.
Elezioni vicine
Forse poi così arbitraria però non è: con le elezioni di metà mandato che si avvicinano, spostare l’attenzione sul risanamento dell’economia – che Obama ha definito «l’impegno più pressante» nel suo discorso – appare quasi, come l’hanno definita gli editorialisti più maligni, una mossa da campagna elettorale. Tanto più che, secondo un sondaggio WSJ/NBC dello scorso agosto, il 73 per cento degli americani baserà il proprio voto su questioni interne al Paese e solo il 12 per cento sulla politica estera, contro il 43 per cento e il 28 per cento rispettivamente nel 2006.
Opinione pubblica polarizzata
A leggere i commenti dei lettori, si esce con l’impressione di un’opinione pubblica molto polarizzata. Se c’è chi invoca la benedizione di Dio per il presidente che ha finalmente messo fine a questa carneficina e a questo spreco di denaro pubblico – probabilmente il peccato più grave oltreoceano – c’è anche chi fa proprio l’invito di Obama a «voltare pagina» votando repubblicano alle prossime elezioni. Molti dubbi, peraltro, si concentrano sul ruolo dei 50 mila soldati che rimarranno: che cosa significa esattamente “truppe di supporto”? E finché rimangono, la guerra può davvero dirsi finita?
Superare le divisioni
Proprio perché questo dibattito viene spesso strumentalizzato e trasferito ad altri fronti, dall’economia alla guerra in Afghanistan, non appare vano l’invito di Obama a superare le divisioni e chiudere le diatribe sul conflitto. Lui stesso ha voluto dare il buon esempio: pur ammettendo di essere sempre stato in disaccordo con Bush sulla guerra, ha riconosciuto «il suo indubbio sostegno alle nostre truppe e amore per il nostro Paese». Insomma, come ha affermato il deputato democratico ed ex candidato alla presidenza John Kerry, «la guerra a proposito della guerra è finita»? Probabilmente no. Ma l’invito a “raccogliere i cocci” e superare le divisioni rimane.