Le Troiane, cronaca del nostro tempo
Nella vicenda delle donne doppiamente sconfitte dalla vittoria dei Greci sui Troiani, Euripide ha scritto un manifesto eterno contro la guerra e la sua violenza, contro la distruzione militare e la sua arroganza. Tutto visto dall’occhio delle donne destinate alla schiavitù, un tempo regine della loro terra, oggi prigioniere violate fin nell’intimità. Ci ricorda ancora una volta che la guerra è una barbarie, anche se a provocarla, combatterla e vincerla sono i paladini della civiltà (i Greci) contro le barbarie (i Troiani), o presunta tale. In una Troia in fiamme, tocca agli eroi spartirsi l’ultimo bottino utile: le donne sopravvissute, accuratamente tirate a sorte per essere concesse a questo o a quello come schiave. Cassandra andrà ad Agamennone; Andromaca a Neottolemo; Ecuba a Odisseo, che tra l’altro convince i compagni a gettare giù da una rupe il piccolo Astianatte, figlio di Ettore, pur di assassinare definitivamente la stirpe troiana. Un’ecatombe. Ci immette nel nostro tempo lo spettacolo Troiane allestito dal regista Andrea Chiodi nell’asciutto adattamento di Angela Demattè, nella cui traduzione inserisce oltre a dei rimandi all’oggi – smentendo quell’“andrà tutto bene” che ci ha accompagnato in pieno lockdown –, anche citazioni appropriate d’altri autori. Come Quasimodo, per esempio, facendo dire alla regina Ecuba: “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze…», poesia con la quale il poeta descriveva l’atmosfera di sgomento dinanzi all’orrore e al dolore provocati dalla guerra.
Lo stesso sentimento pervade la regia di Chiodi che trasporta la tragedia in un grigio interno domestico con quattro porte, un tavolo e delle sedie metalliche, un letto, una poltrona e un cavalluccio a dondolo. Vissuto come un luogo di costrizione, c’è nella messinscena un chiaro richiamo al tempo pandemico che abbiamo attraversato. Lo ravvisiamo in questa reclusione forzata delle quattro donne, dai costumi sobri e domestici, dentro l’unica stanza, come se vivessero una sorta di lockdown in attesa di sapere cosa ne sarà del loro futuro; e, ancora, nel Coro, costituito non da donne in carne ed ossa ma da quadrati di volti proiettati in video in un’unica grande schermata Zoom – strumento che abbiamo imparato a usare per supplire alla mancanza fisica di comunicazione –, mentre scorrono e si odono le loro parole tradotte anche in greco.
Lo struggente canto «Lascia ch’io pianga la cruda sorte» dal Rinaldo di Händel, apre – e chiuderà – lo spettacolo, mentre cade della cenere depositandosi sulla scena, segno dell’avvenuta distruzione della città. Ad avviare la vicenda delle Troiane è Ecuba (una Elisabetta Pozzi di dignitoso strazio scolpito a tutto tondo nel suo blocco tragico) che entra con una valigia in mano e, avanzando in proscenio, si accascia per poi pronunciare quelle battute iniziali: «Dobbiamo alzare la testa…», parole che sono la chiave di lettura del regista: «…se vogliamo trovare uno spiraglio, un fiato di speranza oggi».
A Talbitio (Graziano Piazza), il messaggero funesto degli Achei, freddo e ambiguo, tocca il compito di annunciare con l’arroganza del potere, a quale triste sorte saranno destinate le donne, salvo infine manifestare un briciolo di umanità nel racconto della morte del piccolo Astianatte. Elena (Alessia Spinelli) è presentata come una ragazza tutta social, oziosamente presente in un angolo sprofondata su una poltrona tra computer e cellulare, incurante del dolore delle donne, per poi intervenire al microfono davanti ad una webcam, nella sua dialettica difensiva, per affermare la propria vanità e bellezza, compiaciuta della sua procace immagine riprodotta sullo schermo. Al turbamento psichico di Cassandra (Federica Fracassi), adolescente con grandi occhialoni e trecce, ghignante strumento di morte (come, nel suo lucido delirio, profetizza) per Agamennone, che se n’è invaghito e si accinge a condurla con sé ad Argo, segue l’affranta maternità di Andromaca (Valentina Bartolo) cui viene sacrificato e condannato il figlioletto. Messinscena, questa di Troiane, di grande tensione, che è una risorsa per attrici individuali la cui prova costituisce un magma corale, un collante che tiene desta la pena, l’orrore, il fiato mentale.
“Troiane” da Euripide, adattamento e traduzione di Angela Demattè, regia Andrea Chiodi, scene Matteo Patrucco, costumi Ilaria Ariemme, luci Cesare Agoni, musiche Daniele D’Angelo. Produzione Centro Teatrale Bresciano. Al Teatro Quirino di Roma, fino al 23 gennaio, e in tournée.