Le tre vite di Edmond Dantès
Una sontuosa edizione de Il conte di Montecristo, una delle opere più famose di Alexandre Dumas padre, pubblicata inizialmente come appendice in diciotto fascicoli tra il 1845 e il 1846, è quella uscita di recente per i tipi di Donzelli. Condotta sul testo francese meticolosamente stabilito da Claude Schopp e affidata alla nuova traduzione di Gaia Panfili, comprende, oltre alla Prefazione dello stesso Schopp, un apparato di note al testo, nonché un Dizionario dei personaggi e delle persone storiche e un indice dei luoghi che faranno la felicità di ogni patito di Dumas.
Inizia come un romanzo d’avventura, ma dopo qualche capitolo prosegue come un romanzo a tesi, i cui temi riguardano la giustizia, la vendetta, il perdono e la misericordia. Invano cercheremmo la verosimiglianza in questa storia ambientata a Marsiglia, Roma, Parigi e isole del Tirreno durante gli anni tra il 1815 e il 1838 (dalla fine del regno di Napoleone I a quello di Luigi Filippo), zeppa com’è di personaggi, digressioni e situazioni assolutamente inverosimili, nel più puro stile dei feuilleton ottocenteschi, che ad ogni puntata mantenevano viva l’attenzione dei lettori con qualche coup de théatre. Del resto, si cerca la verosimiglianza nella favola, o non piuttosto il significato morale? E questa è in fondo Il conte di Montecristo, una favola abilmente orchestrata sul male che contamina l’animo umano, favola che ha fatto sognare intere generazioni ed è stata fonte d’ispirazione per molti altri autori: primo fra tutti quel Jules Verne, che dedicando a Dumas figlio il suo romanzo Mathias Sandorf ne dichiarava la dipendenza dall’opera paterna.
Come l’Iliade e l’Odissea, di cui si ha cognizione almeno scolastica, l’opera dumasiana è universalmente conosciuta se non altro attraverso le sue innumerevoli versioni per il grande e piccolo schermo, le pubblicazioni a fumetti e le riduzioni teatrali, alle quali in particolare si presta per i tanti dialoghi che inframezzano l’azione; dialoghi nei quali Dumas, autore anche di drammi teatrali, era maestro.
Quanto alla trama, la storia inizia con lo sbarco a Marsiglia di Edmond Dantès, giovane ma già esperto marinaio in procinto di essere promosso a capitano e di sposare l’amata Mercédès. Senonché l’invidia nutrita da Danglars, scrivano del suo stesso mercantile e aspirante lui pure alla nomina di capitano, da Fernando Mondego, innamorato respinto di Mercédès, e da Gaspard Caderousse, vicino di casa di Dantès, architetta una trappola per togliere di mezzo Edmond: una lettera anonima che lo accusa di essere un agente di Napoleone in esilio all’Elba, inviata al sostituto procuratore del re Gérard de Villefort. Questo, desideroso di sposare la figlia dei marchesi di Saint-Méran (filomonarchici) e allo stesso tempo di proteggere il proprio padre (attivo bonapartista), emette contro Dantès un ordine di arresto, nonostante sia consapevole della sua innocenza.
Il povero giovane viene condotto nottetempo in una cella d’isolamento del Castello d’If, condannato a trascorrervi il resto della vita. Ma dopo qualche anno, proprio quando dispera di tornare libero, entra casualmente in contatto con un altro prigioniero che da anni sta scavando un tunnel sotterraneo come via di fuga dalla fortezza: l’abate Faria. Edmond decide di aiutare il suo compagno di sventura, che a sua volta lo illumina sugli eventi che lo hanno condotto in prigione. Consapevole di essere stato vittima di un complotto, Dantès giura di vendicarsi di coloro che lo hanno incastrato e intanto si fa istruire dall’enciclopedico abate in varie discipline, dall’economia alla matematica, dalle lingue straniere alla filosofia, fino alla morte di lui, già anziano e malato. Prima, però, dal suo maestro gli è stata rivelata l’esatta ubicazione di un tesoro nascosto a Montecristo, isolotto del Tirreno. Segue la fuga rocambolesca del giovane, sostituitosi al cadavere di Faria all’interno di un sacco che viene gettato in mare dai secondini. Sgusciato fuori dal suo involucro come un feto dal grembo materno, il “rinato” Dantès riesce a riparare a nuoto sull’isola di Tiboulen, finalmente libero dopo 14 anni di prigionia.
Lo ritroviamo dopo un salto di dieci anni, ma quanto cambiato! Il giovane ingenuo e idealista di una volta s’è trasformato in un freddo e impenetrabile uomo di mondo che conosce tutto lo scibile, prevede tutto e può tutto grazie anche all’immensa fortuna in suo possesso (il recuperato tesoro). Inizia per lui una seconda vita che sembra ricalcare la vicenda di Odisseo, a Itaca sotto mentite spoglie e intenzionato a regolare i conti con i Proci. Dantès, infatti, ritorna a Marsiglia e mediante una serie di abili travestimenti viene a scoprire, assieme ai particolari del complotto architettato ai propri danni, la morte del padre e lo sposalizio di Mercédès con Mondego: notizie utili per attuare il suo piano di vendetta.
Con toni cupi, ma smorzati dall’ironia del narratore onnisciente sempre attento a non anticipare le sorprese al lettore, il romanzo procede a ritmo incalzante grazie anche allo stile scorrevole. A Parigi, dove è giunto come conte di Montecristo che ostenta ricchezze, fascino e mistero, Dantès tesse implacabile l’intricata tela di ragno nella quale avviluppa ad uno ad uno i suoi nemici, inducendo chi al suicidio chi alla pazzia, di altri provocando la morte per avvelenamento e il tracollo finanziario; ma allo stesso tempo si dimostra benefico verso gli amici rimastigli fedeli. Come chi, ritenendosi strumento della giustizia divina, può distribuire condanna o salvezza a suo piacimento. Per questo, tuttavia, egli paga un prezzo altissimo: divenuto pietra, il suo cuore non arretra di fronte a nessuna crudeltà.
Se all’inizio il semplice marinaio condannato ingiustamente attirava le nostre simpatie, Montecristo ci raggela con la sua psicologia complessa, il suo procedere inesorabile e il suo charme “vampiresco” (come Dumas fa dire ad uno dei personaggi femminili). Quanto meno induce al dubbio: avrà stretto un patto con Dio o con il diavolo? Personaggio tragico ossessionato dalla vendetta, inizia a ritrovare la propria umanità solo quando, di fronte al sincero pentimento di Danglars, gli concede il suo perdono. Lui stesso, a fine romanzo, considerando le rovine lasciate dietro di sé, comprende di aver superato ogni limite e, insieme al dono del pentimento, riceve occhi per accorgersi dell’amore di Haydée, la bellissima principessa greco-albanese da lui salvata dalla schiavitù, che l’ha seguito ovunque. Quando con lei lascia Parigi per altri lidi, «una serenità quasi sovrumana lo avvolge come un’aureola: pare un esiliato che ritrova la sua patria». Con queste parole Dumas ci lascia immaginare per il suo eroe l’inizio di una terza vita, forse di riscatto, dove poter gustare finalmente un po’ di pace.