Le tragedie dei poveri
Tre notizie delle ultime 48 ore colpiscono il cronista, come il sottoscritto, che per lavoro cerca quotidianamente dispacci dal mondo intero, in particolare dai Paesi che occupano i gradini più bassi nelle classifiche di povertà del mondo intero. Oggi ne trovo una che riguarda il terz’ultimo Paese per Pil pro capite al mondo (801 dollari), cioè la Repubblica Democratica del Congo; un’altra che riguarda la Liberia, quart’ultimo (813 dollari); una terza riguardante il Bangladesh, che occupa il 137° posto (3.581 dollari, una vera manna rispetto a Rdc e Liberia, una miseria rispetto ai 127 mila del Qatar o ai 62 mila della Svizzera e ai quasi 40 mila dell’Italia).
La prima notizia, dicevo, viene dalla Repubblica Democratica del Congo, dove sono state trovate 15 fosse comuni in cui sono state ammassate le vittime di scontri tribali tra i gruppi etnici bununu e batende, nella città di Yumbi della provincia di Mai-Ndombe, nel Nord-Est del Paese, a causa di incidenti intensificatisi dopo le recenti elezioni.
In Liberia, invece, una cinquantina di minatori sono stati uccisi a causa di una colata di fango in una miniera illegale e apparentemente priva di qualsiasi norma di sicurezza, nel Nord del Paese, nella sperduta contea di Nimba. Anche il papa ha voluto pubblicamente pregare per questi morti in una delle periferie-più-periferie del mondo.
Infine, la terza notizia viene dal Bangladesh, un altro Paese abituato a stragi d’ogni genere, da quelle provocate dalle inondazioni al crollo di edifici in pieno centro della capitale. Il dispaccio d’agenzia è agghiacciante: a Dacca un rogo ha incendiato diversi condomini nei cui sotterranei erano stipati prodotti chimici altamente infiammabili, senza controllo ovviamente. Al momento le cifre ufficiali parlano di più di cento morti.
Notizie di cronaca secondarie, mi si dirà, stragi dovute a fatalità, a incuria, ad arretratezze culturali ataviche, a sottosviluppo inguaribile. «Se la sono voluta», si sente dire in giro. È vero, le condizioni di vita in questi Paesi sono talmente disagevoli e precarie, la presenza dello Stato così volatile e le condizioni di sicurezza ambientale così infime che è logico aspettarsi che accadano drammi del genere. Ma immaginiamo solo, per assurdo, che la strage congolese sia avventura per scontri tra due etnie balcaniche, che la morte di minatori abbia avuto luogo in una remota miniera sarda, o che l’incendio avesse avuto come teatro una città del Sud della Francia: giorni e giorni di assillanti inchieste giornalistiche, settimane di inchieste della magistratura, mesi di commenti degli intellettuali di turno. Mentre per le stragi in questione bisogna cercare nei siti locali o specializzati. O ascoltare l’Angelus di Bergoglio.
C’è un fatto che inquieta: l’apparente diminuzione della sensibilità umana per il dramma che colpisce altrui (il bullismo, che cos’è?), la pericolosa discesa dell’attenzione alla solidarietà (gli aiuti a chi si occupa di cooperazione internazionale sono in calo verticale), l’assuefazione (preconizzata da Susan Sontag) alla sofferenza altrui che porta ad osservare immagini drammatiche come fossero della fiction. Si potrebbero ricordare anche casi recentissimi e vicinissimi di insensibilità verso chi ha la pelle scura, o chi arriva scappando da guerre e dittature, o ancora chi è semplicemente sfavorito nella scala sociale.
Ma questo è quello che appare evidenziato dagli algorismi. In realtà – e chi conosce un po’ Internet sa bene che l’apparenza (o piuttosto questi stessi algoritmi) spesso ingannano – sta crescendo una sensibilità umana transnazionale, al di là delle categorie sociali e delle culture, oltre lo spartiacque tra chi ha una credenza religiosa e chi ne ha altre, che forse è ancora minoritaria ma che ha una sua forza intrinseca potenzialmente dirompente. Quando si osservano le visualizzazioni di pagine remote che raccontano di eventi come quelli raccontati qui sopra si rimarrà sorpresi: decine di migliaia di uomini e donne con-dividono, com-patiscono, si com-muovono. Alziamo il volume della loro voce silenziosa, please.