Le tante ragioni della pace

“La pace non ha una ragione, ne ha mille”, si leggeva su un cartello inalberato da uno dei partecipanti alle marce per la pace che avevano preceduto, cercando di scongiurarlo, il conflitto iracheno. Lo slogan torna oggi in mente riportando il pensiero di alcuni esperti, membri della Scuola Abbà, il centro studi del Movimento dei focolari, cui abbiamo chiesto, ciascuno dall’angolo di visuale della propria disciplina, di esprimere un pensiero che possa farci riflettere sull’esplosiva situazione situazione internazionale. Perché siamo convinti che la politica di oggi, troppo appiattita sul presente anche per l’enorme pressione mediatica, abbia bisogno di un nuovo soffio, di un pensiero che sappia far volare alto, che distolga dalla paura, che metta le basi del futuro. Da ognuna di queste analisi, lo si coglierà facilmente, emerge una motivazione alla pace, una delle tante. Stimoli in serie, verrebbe da definirle, provocazioni da valutare, riprendere e approfondire. PIERO CODA Il nuovo paradigma culturale dell’unità della famiglia umana “Dal punto di vista culturale mi sembra che gli avvenimenti di questi ultimi anni abbiano dimostrato che occorre un vero e proprio cambio di paradigma nell’approccio ai problemi del nostro tempo. Non si può più ragionare – e dico ciò a proposito dei singoli e dei gruppi, sia privati che pubblici – in modo parziale, solo dal proprio punto di vista, e nel contempo alternativo o contrappositivo. Bisogna invece pensare e agire a partire dall’unità della famiglia umana, nel riconoscimento dell’alterità dell’altro, e dunque della pluralità arricchente degli attori della nostra storia. “Questo cambio di prospettiva può essere realizzato solo con un nuovo paradigma culturale, che di fatto può trovare la sua sorgente in una novità spirituale, in una nuova esperienza di Dio e del rapporto tra gli uomini; o, per dirla in termini più laici, in una nuova autocoscienza che l’uomo deve avere di sé stesso. Ogni religione, a partire dal cristianesimo, è chiamata a diventare una risorsa di esperienze e di legami sociali costruttivi e aperti. Occorre partire dal riconoscimento dell’altro come portatore di nuovi accenti e prospettive, per attuare una solidarietà planetaria. “In quest’ottica nuova, non mancano i gesti che già prefigurano il nascere e l’affermarsi di tale paradigma. Minoranze di vario genere testimoniano la valenza sociale della fraternità universale. Penso, per non fare che un esempio vissuto in prima persona, ad iniziative come quella della rivista Confronti, con la giornata islamo- cristiana celebrata sul finire del Ramadan, in cui rappresentanti delle diverse religioni si sono ritrovati per parlare del “valore civile del dialogo interreligioso”, e poi per rompere il digiuno nella moschea di Roma. Semi che dovrebbero diventare costume “. Piero Coda, professore all’Università lateranense e presidente dell’Associazione teologica italiana. VERA ARAÚJO Nel mondo non ci sono solo Stati Uniti ed Europa “Nel problema attuale delle relazioni con l’Islam, si contrappongono le due divisioni statunitense ed europea. In mezzo si trova il mondo arabo. E tutto finirebbe lì. Invece non credo si possa semplificare a tal punto la situazione mondiale. La maggioranza dei popoli è estranea a queste due visioni. Con gran fatica essi stanno tentando di dare il loro apporto a una visione del mondo più completa, ma non fanno audience. “Serve, invece, una visione mondiale dei problemi, in cui tutte le aree geografiche abbiano una parola da dire, una parola che sia ascoltata. Nel Terzo mondo cresce in effetti un sentimento di grande insofferenza nei confronti sia degli Usa che dell’Europa, le cui visioni del mondo nasconderebbero interessi di parte. Bisognerebbe dar voce a tutti i grandi leader del mondo, e non solo ad alcuni. Perché non ascoltare, ad esempio, i sensati discorsi dei presidenti brasiliano e sudafricano, che propugnano un mondo più giusto e più uguale?”. Vera Araújo, sociologa. LUIGINO BRUNI Un’economia che pensi all’impresa, alla cultura, ai poveri “Non sono del parere che l’unica causa che alimenta il terrorismo sia la miseria, ma sono persuaso che il senso di ingiustizia economica alimenta la ribellione verso l’occidente. “Alcuni suggerimenti possono provenire dall’esperienza del progetto per una Economia di Comunione che, come è noto, si basa su una triplice ripartizione della ricchezza: per lo sviluppo dell’impresa, per la crescita culturale e per gli indigenti. Da alcuni anni stiamo lavorando per declinare la logica di tale progetto per elaborare proposte “macro”: in particolare, nel giugno del 2001 abbiamo elaborato il “Documento di Genova”. “Ora, pensando al primo aspetto (l’impresa), verrebbe da mettere in luce i vantaggi che un allargamento dei mercati ai paesi arabi comporterebbe: sappiamo che commerciare porta con sé la pace, e dove non passano le merci passano i carri armati. Esistono già tentativi seri, ma in tale direzione gli ostacoli sono politici più che economici. “Sul piano sociale e culturale, il “Documento di Genova” proponeva, tra l’altro, l’istituzione di un “Fondo giovani del mondo”, un’idea innovativa nella regolazione dei flussi finanziari internazionali, contenente anche un invito rivolto alle imprese per un programma di educazione dei giovani dei paesi più poveri: è infatti fin troppo ovvio che senza cultura non c’è nessun programma economico e sociale sostenibile. “Infine gli indigenti: credo sia giunto il momento di affermare il diritto alla salute e all’istruzione per tutti, a un posto di lavoro, e forse anche a un salario minimo mondiale: non è più sopportabile lo scandalo della morte per fame, con un occidente che al contrario muore di troppa ricchezza. Passaggio obbligato è quello di rendere finalmente rappresentative dell’intera umanità le organizzazioni economiche internazionali, ancora troppo legate a pochi paesi potenti”. Luigino Bruni, professore di economia all’Università Bicocca di Milano. ANTONIO MARIA BAGGIO La fraternità perché i popoli si riconoscano reciprocamente “La politica estera e quella interna degli stati sono sempre collegate: ciò che un paese produce all’esterno esprime, in qualche modo, quel che è dentro. La situazione di guerra non dice soltanto che esiste il terrorismo: parla anche di noi, mette a nudo le risorse, non solo militari ed economiche, ma anche morali e culturali, con le quali lo affrontiamo. Diventa evidente, allora, che oggi le democrazie sono in profonda crisi perché, in parte almeno, stanno tradendo le verità universali sulle quali sono fondate e che proclamano esplicitamente nelle loro carte costituzionali. Se la libertà, l’uguaglianza e la fraternità fossero vissute davvero, non ci sarebbe difficoltà, anche da parte di paesi di cultura e tradizione non occidentali, a riconoscerle; questo non porterebbe ad un’accettazione immediata del modello democratico, ma al suo rispetto, e ad uno scambio fecondo di esperienze, culture e istituzioni. Finché la democrazia occidentale rimane incompiuta o addirittura tradita all’interno dei singoli stati, la sua esportazione sarà sempre rifiutata, perché con essa non si comunicano delle verità, ma un particolare modello di potere. “Dobbiamo allora considerare sul serio una revisione della nostra politica che incida sulle sue radici culturali profonde, cominciando col chiederci, prima di tutto, perché la fraternità sia ancora in gran parte, nel dibattito politico, un argomento tabù, mentre si rivela essenziale all’origine degli stati, nella lotta per la loro costruzione, nella formazione dell’identità delle nazioni, nel riconoscimento reciproco fra i popoli. La fraternità non è un sentimento, ma una verità di fatto che deve essere assunta come principio anche politico: ne verrebbero conseguenze immediate e determinanti per le scelte politiche del nostro tempo, sia sul versante economico, sia su quello della partecipazione mondiale alle decisioni, come hanno sottolineato gli interventi che mi hanno preceduto”. Antonio Maria Baggio, professore di filosofia politica all’Università gregoriana. GIUSEPPE MARIA ZANGHÌ L’occidente deve riscoprire il problema di Dio “A mio parere, l’occidente non può più sottrarsi a un profondo esame di coscienza. Il motivo più grave del contrasto con l’Islam non va cercato nell’iniqua distribuzione dei beni, che pur esiste, ma sulla profonda deriva secolarizzante messa in atto da decenni. Alcuni profeti hanno denunciato tale deriva: penso ad esempio a Nietzsche, a Rimbaud, che scriveva: “Noi veniamo troppo tardi per il vangelo”. Era l’occidente negli spiriti più attenti ad accorgersi che si stava svuotando del divino. E che stava sostituendo alle verità i valori. “Non si può certo dire che nell’antichità non ci siano stati scontri, perché Islam ed Europa sono confinanti. Ma allora esistevano forti élite culturali nei mondi ebraico, cristiano e musulmano che, condividendo valori profondi e in qualche modo comuni, riuscivano ad evitare che lo scontro fra culture e religioni degenerasse, come oggi invece accade. L’occidente questa élite dialogante l’ha persa. “L’Islam, perciò, si difende contro quello che considera un attacco culturale. Per fare un esempio, recentemente alla tv ho visto un film a carattere religioso. Ma nel bel mezzo della trasmissione, ecco la pubblicità, fatta di consumismo, edonismo e disimpegno, prova che per noi occidentali una cosa vale l’altra, ormai. “Ho partecipato a diversi simposi tra movimenti cattolici ed esponenti musulmani di tutto rispetto. Come mai questi intellettuali islamici a contatto con i cristiani veri, non quelli di facciata, riescono a dialogare? La stessa cosa mi è accaduta in India, con gli indù. Ciò accade perché il cristianesimo veicola ancora, grazie a Dio, delle verità forti che possono essere condivise, nella totalità o in parte, da musulmani, indù, buddhisti” Chi sono oggi gli uomini politici o di cultura che possiamo definire “maestri”? “La mia impressione è che noi occidentali stiamo infettando il mondo con un ateismo pratico, non solo teorico, dal quale gli islamici si difendono. Norberto Bobbio faceva parte di questi spiriti di élite. Pur dicendosi non credente, confessava che il problema religioso lo tormentava. Ora tale questione è troppo spesso considerata di retroguardia, insignificante. Bisogna perciò rimboccarsi le maniche e ricostruire un tessuto sociale e una cultura nei quali venga rimesso al centro Dio, o almeno il problema di Dio. Non un ritorno al Medioevo, ma una novità culturale, che reintroduca il senso del peccato nella vita dell’uomo, che contrasti la tendenza tremenda di spogliare sempre di più le verità cristiane del loro contenuto soprannaturale, riducendole sempre di più solamente a un fatto naturalmente affrontabile, esplicabile e percepibile. Solo così, ritengo, si potrà ricostruire una élite culturale seria, che possa dialogare. È la strada che lo Spirito ci indica”. Giuseppe Maria Zanghì, direttore della rivista Nuova Umanità. LE CHIESE UNITE CONTRO LA GUERRA “Negli ultimi anni il lavoro per la pace, in particolare contro la guerra in Iraq, ha avvicinato le chiese cristiane. Di recente il cardinale Kasper ha definito “commovente e significativa la sintonia non concertata delle chiese e comunità ecclesiali, che si sono pronunciate a favore della pace e contro la guerra”. I responsabili delle chiese hanno usato tutti i mezzi per amplificare la loro domanda di pace, talvolta congiuntamente. Purtroppo le loro voci non sono state ascoltate”. Joan Patricia Back, ecumenista UN DEFICIT PEDAGOGICO “L’occidente ha un deficit pedagogico, cosa che invece l’Islam ha in qualche modo trovato, sbagliato o giusto che sia. I musulmani ogni venerdì vanno alla moschea e ne escono “agguerriti”, convinti, motivati. Noi la domenica andiamo in chiesa e il più delle volte usciamo come ne siamo entrati. Dobbiamo trovare una soluzione, a cominciare dal mondo ecclesiale, dagli ordini religiosi, dalle chiese locali”. Fabio Ciardi, docente di spiritualità LA VOCE DEL POPOLO “Mi sembra si dimentichi troppo spesso di ascoltare la “voce del popolo”, che reclama la pace. Come non ricordare il fenomeno del people power, che nel 1986, nelle Filippine contribuì a ribaltare una situazione politica che si sarebbe detta impossibile da mutare? I media dovrebbe svolgere un ruolo importante per la pace, così come hanno troppo spesso appoggiato la guerra”. Judith Povilus dottore in teologia

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