Le tante ombre sulle elezioni Usa
“Vorrei che smettessero di parlarsi addosso e di offendersi e cominciassero finalmente a parlare a noi, ai cittadini”. Il desiderio di Jane, giovane insegnante newyorkese, di animo repubblicano ma decisa a non sostenere né Trump, né la Clinton è sentimento comune a molti elettori americani che continuano a non sentirsi rassicurati neppure dall’esito del terzo dibattito pubblico tenutosi all’Università del Nevada a Las Vegas, che ha consegnato a Hillary la palma della vittoria.
Anche stavolta più che di campagna si deve parlare di show con una Hillary Clinton decisamente presidenziale, pur con delle defaiance e un Donald Trump che si conferma ancora una volta uomo di spettacolo, capace di accendere la platea con commenti sagaci, al limite della buona educazione (definisce l’avversaria “una donna così brutta”) e in grado di coniare neologismi. La nuova parola “Bigly” impropriamente usato come avverbio dal candidato repubblicano per sottolineare la grandezza dell’America, in pochi minuti è diventato uno dei termini più scambiati di twitter.
Sulla campagna però continuano ad ammassarsi ombre e sospetti. Anzitutto l’intervento russo. La Clinton sostiene che 17 agenzie investigative militari e civili hanno confermato ingerenze di Mosca nelle elezioni e definisce il suo avversario “un burattino” nelle mani del presidente russo.
Proprio ieri, poi, l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, ha deciso di tagliare internet a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks per gravi interferenze sulla corsa alla Casa Bianca. L’uomo che da quattro anni vive nella sede diplomatica ha rilasciato nelle ultime settimane migliaia di mail dove appare che Hillary Clinton sia vicina ai poteri di Wall Street, da cui ha ricevuto non pochi finanziamenti, e non tanto alla classe media che dice di voler sostenere.
Trump non nega l’intervento di Putin, anzi lo aveva persino auspicato in un dibattito pubblico, ma al contempo dichiara di non conoscerlo o di esservi amico, e intanto lo giudica decisamente “più intelligente di Obama e di Hillary” anche per la condotta tenuta sulla Siria.
Poi arriva il colpo di scena del candidato repubblicano che rifiuta di dichiarare l’accettazione del risultato elettorale qualunque esso sia. “Deciderò l’8 novembre se rispettare i risultati elettorali. Voglio tenervi con il fiato sospeso”. La dichiarazione ha scosso la platea perché ha pubblicamente respinto le indicazioni del Partito repubblicano che lo aveva invitato a rimanere nelle regole del processo democratico. Pronta la risposta della Clinton che ha giudicato “orribile” l’affermazione e ha accusato l’avversario di “trascinare verso il basso la nostra democrazia”.
Ma Trump è passato al contrattacco affermando che tutto il processo politico è ampiamente truccato per farlo perdere e che l’Fbi e tutti i media lo stanno attaccando indiscriminatamente perché temono la sua vittoria. A nulla è valso il richiamo del moderatore del dibattito, il giornalista Chris Wallace, a considerare il pacifico trasferimento del potere ad un altro presidente, "uno dei fiori all'occhiello di questo Paese."
La crisi della democrazia americana in questi mesi si sta consumando sotto gli occhi del mondo. La prima donna nella storia degli Stati Uniti che potrebbe diventare presidente, pur preparata, capace e con grande abilità di governo viene rigettata proprio per la sua esperienza: appartiene al potere costituito da troppo tempo e questo costituisce una macchia disonorevole ai tempi del populismo irragionevole che premia gli slogan e non i fatti. I suoi errori pesano più dei successi e delle ammende.
La sua storia familiare inaugurerebbe una nuova dinastia dopo i Bush e i Kennedye l’America di oggi non vuole una saga dei Clinton. Dall’altra parte assistiamo all’agonia lenta del Partito repubblicano che in queste elezioni sembra aver seppellito le idealità dei suoi migliori rappresentanti: Lincoln e Roosevelt.
Giorno dopo giorno senatori e deputati abbandonato il candidato alla presidenza, sempre più insostenibile e si organizzano in correnti per cercare di salvare la maggioranza al senato. Si sono smarcati dal sostenere Trump, il portavoce della Camera, Paul Ryan, il rispettato senatore e persino la famiglia Bush che ha pubblicamente dichiarato di sostenere la Clinton. Rimettere insieme i cocci dopo l’8 novembre qualunque sia l’esito non sarà facile. Tutti si aspettano una prevedibile sconfitta, ma in caso di imprevedibile vittoria gli esponenti repubblicani stanno già studiando un piano B: chiedere l’impeachment per Trump e far sedere il suo vice Mike Pence nello studio ovale, come vero presidente degli Stati Uniti.
Le serrate questioni poste dal moderatore hanno ancora una volta evidenziato le fragilità dei rispettivi candidati: l’imbarazzo di Hillary sulle dichiarazioni di Wikileaks e quello di Donald sui commenti volgari verso le donne; i finanziamenti della Fondazione Clinton per l’una, l’elusione delle tasse e l’utilizzo di lavoratori in nero per l’altro.
Una novità della serata è stato il tema sull’aborto, particolarmente caro ai cattolici del Paese e che negli anni è stato una bussola di orientamento per l’elettorato: la difesa della vita per Trump è senza condizioni, ma anche senza programmi di attuazione; per la Clinton prevale il diritto della donna a decidere sulla vita.
Altra domanda stringente è stata sulla giustizia e sul ruolo della Corte Costituzionale: impacciato Trump che denuncia complotti giudiziari, determinata Hillary nel chiedere la conferma del giudice costituzionale nominato da Obama. Gli altri argomenti toccati ripetono quelli dei precedenti incontri: tasse, ambiente, armi, politica estera, lavoro, immigrazione, terrorismo.
La conclusione è un appello dei candidati e anche di Wallace. Hillary chiede di dargli l’opportunità di “servire il Paese da presidente”; Donald dopo 30 secondi di accuse all’avversaria ribadisce il suo supporto all’esercito, alle armi (le cui lobby continuano a sostenerlo) e a quell’America che diventerà grande grazie a lui. Wallace invece fa un appello per il voto: “Andate a votare, è un obbligo per la nostra nazione”. Perché il vero timore è che in una nazione così polarizzata e divisa, il vero vincitore della competizione sia l’astensionismo.