Le stranezze di Carlo Crivelli
A Milano, alla Pinacoteca di Brera, è la volta dei tredici dipinti di Carlo Crivelli. Poco conosciuto ai più, ma personaggio di tutto rilievo nell’arte del Quattrocento. Devo confessare che non mi era mai stato troppo simpatico. Le sue tavole, tutte di soggetto biblico, quegli infiniti polittici superdecorati, sparsi sui cocuzzoli delle chiese marchigiane, i santi dalle facce arcigne, ragazze dai profili appuntiti che sembrano zitelle in cerca di marito, una certa malagrazia nei giovani cavalieri. E poi architetture rifinite senza trascurare alcun particolare, una mescolanza di simboli cristiani e di archeologie classiche alla Mantegna, e la linea nervosa che ti lascia di malanimo, impedendoti di avere una visione d’assieme: chiara, definita.
Insomma, non capivo perché per Crivelli fossero impazziti gli antiquari del secolo scorso che si erano arrampicati per i colli marchigiani a recuperare le tavole – sconsideratamente vendute dalle chiese – o perché addirittura il principe Carlo d’Inghilterra sia diventato il patrono di alcune cappelle che tuttora conservano le opere di Crivelli e della sua fiorente bottega in loco. Finché Crivelli si è preso la sua vendetta su di me. Il personaggio storico ne era capace. Carlo infatti, veneziano doc, deve presto fuggire dalla patria perché accusato di stupro. Vaga per l’Istria e la Dalmazia, prima di trovare rifugio sicuro nelle Marche, dove lavora sino al 1495, data presumibile della morte. Insomma, una specie di Caravaggio.
Dicevo che Carlo si è vendicato: bene, però. È successo di fronte ad una delle sue ultime opere, la Madonna della candeletta, dal 1811 a Brera (il che rende ragione della mostra, inserita nelle celebrazioni del secondo centenario della Pinacoteca). Più che la Vergine raccolta, dall’ovale tornito come un avorio, lo sguardo mi è caduto sul vaso di fiori ai piedi del trono, sotto uno di quei magnifici tappeti orientali che Crivelli ama tanto descrivere. Di colpo, quel mazzo di fiori sul vaso di ceramica mi ha fatto ricordare Cézanne. Stilizzati, eppure pennellati come un ricamo petalo per petalo, i colori troppo elettrici per sembrare veri, una geometria formale che tende all’astrazione. Crivelli “pittore astratto”?
Dai fiori sono passato al manto della Vergine, disegnato in punta di pennello filo per filo, con una minuzia fiamminga, eppure tale che potrebbe essere da solo il soggetto di un dipinto autonomo.
Non mi è bastato. Passando all’Annunciazione di Londra (circa 1486), ho sentito il brivido di vento al passaggio della colomba dello Spirito, che fa rabbrividire gli uccelli nel cielo, solleva i tappeti sui terrazzi e muove le cortine della tenda nella stanza della Madonna. Eppure questo movimento non è colto dagli uomini: la gente continua a conversare e a passeggiare, le vie restano pulite, le case alte, scorciate, danno un senso di stabilità che sembra indifferente all’azione dello Spirito. Tutto è troppo perfetto per essere vero.
Per non parlare dei santi. Vedo un san Pietro rivestito da una tiara che gli schiaccia la testa, un san Giorgio damerino di provincia dalla faccia fin troppo vissuta, una Maddalena che con affettazione si solleva con l’indice il manto e ci guarda di sottecchi dal fondo oro. Se poi osservo il modo con cui Carlo costruisce le figure, dai panneggi rinsecchiti come nei dipinti di un Cosmè Tura, esasperando il decorativismo dei Vivarini, citando innumerevoli volte le sculture classiche e mantenendo il fondo dorato bizantino, allora capisco che questo pittore è davvero “strano”.
È un altro rinascimento. Non è solo provinciale – le Marche – o frutto di una mente a dir poco stramba. Crivelli è artista dell’astrazione. Sta proprio nell’eccesso, nell’esuberanza, nella “bruttezza” (che non è realismo, basti osservare le sue Pietà) la fonte della sua vena astratta, informale , diremmo oggi. Carlo stilizza tutto, come un Cézanne, un Morandi. Tutto infatti in lui è così pieno, agitato, da diventare fuori della storia. Affascinante, davvero.
Crivelli è un veneziano sui generis, un artista vorace che prende tutto ciò che è in circolazione. Lo fa con un’arte squisitamente intellettuale, in cui la fantasia vivacissima è raffreddata dal segno inquieto in forme che diventano da sole simboli. Perciò ogni polittico può essere mentalmente scomposto, ogni dettaglio diventa un quadro a sé, un quadro nel quadro: in lui il processo di passare dall’universale al particolare e viceversa è immediato. Così il mazzo di fiori, che precorre il Seicento e il cubismo, è da sé solo uno sguardo alla purezza della natura, espressa in immagini stilizzate, di pari dignità con i volti, ritratti dell’umanità nei suoi gesti e nei suoi passaggi psicologici. Pittura come simbolo, decorazione come astrazione? Crivelli è veramente un grande.
Crivelli a Brera. Fino al 28 marzo (catalogo Skira)