Le strade possibili di un piano per il lavoro
Secondo il cronoprogramma del nuovo presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nel mese di marzo vedrà la luce il piano per il lavoro denominato “Jobs act”. L’uso del termine inglese è già indicativo di una chiara scelta dato che, spesso, si afferma che le regole vigenti in Italia sono scritte in maniera così elaborata e incerta da non essere traducibili nella lingua degli affari, Renzi mette le mani avanti.
Il Fondo Monetario internazionale ha salutato con favore l’impianto delle misure annunciate dall’esecutivo raccomandando «soprattutto la flessibilità dei contratti». Quella in entrata si comprende facilmente perché prevede l’introduzione annunciata del contratto a tutele crescenti. La questione che resta aperta è il «firing cost» e cioè la determinazione, per le imprese, del costo del licenziamento dei lavoratori. Parte del problema è stato risolto, nel 2012, con la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori operata dal governo Monti, dove il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro è venuto meno, nelle aziende con oltre 15 dipendenti, anche in caso di licenziamento individuale per motivi economici. Il giudice del lavoro può ancora decidere di reintegrare il lavoratore, ma solo in caso di manifesta insussistenza del motivo del licenziamento. Un’eccezione davvero difficile da dimostrare e infatti i primi due licenziamenti individuali per motivi economici, in base all’articolo 18 riformato, sono arrivati ad opera della Huawei, una multinazionale cinese delle telecomunicazioni che ha interpretato a suo favore il cambiamento della norma.
Nonostante gli interventi normativi operati, la crisi del Paese è peggiorata in termini di tassi di disoccupazione, a cui si è aggiunta, secondo il Centro studi di Confindustria, la mancanza di una politica industriale in Italia. «In tutte le principali economie avanzate esistono piani strategici, di medio-lungo periodo, a supporto dell'industria, che passano anche attraverso l'individuazione selettiva di aree di intervento ritenute chiave per la crescita», spiega il dossier, ma il nostro Paese su questo fronte è andato a rilento.
L’ex premier Letta, proprio per rispondere alle sollecitazioni e alle critiche esplicite dell’associazione degli industriali, e del presidente Giorgio Squinzi, ha svolto missioni nel Vicino Oriente (il “polmone finanziario del mondo” secondo Letta) per intercettare capitali disponibili ad investire in Italia, ma non è potuto andare fino in fondo dovendo cedere il passo a Renzi.
L’economista Leonardo Becchetti ha provato a fare i conti in tasca al nuovo governo mettendo in riga qualche cifra: «Il programma annunciato prevede, assieme a una riduzione di almeno 10 miliardi di cuneo fiscale, lo sblocco immediato dei crediti delle imprese verso la pubblica amministrazione, un piano di ammodernamento dell’edilizia scolastica da 7 miliardi (che avvierebbe attività ad alta intensità di lavoro) e un sussidio universale di disoccupazione che non costerebbe meno di altri 10 miliardi».
Cosa fare davanti a questo fabbisogno di spesa necessario per contrastare la crescita della disoccupazione e la povertà di ritorno? Una strada inevitabile, condivisa sempre più da altri esperti, è quella, tra le altre da percorrere, di mostrare ai partner europei la bontà delle intenzioni italiane di uscire dalla recessione chiedendo di sforare il vincolo del 3 per cento del disavanzo pubblico nel 2014. Il grande problema del Paese, infatti, secondo l’analisi di Becchetti riportata anche su Avvenire, è la debolezza dei consumi interni, della domanda, cioè, di beni e servizi da parte delle famiglie. Nessuno consuma e nessuno produce. Milioni di scarpe, vestiti, scaffali di cibo restano senza acquirenti che ne hanno realmente bisogno, ma poiché non hanno soldi non li acquistano. E perché non hanno soldi? Perché non possono lavorare. E perché non lavorano? Perché non si produce. Un circolo vizioso, secondo Becchetti, che si perpetua se si rimane dentro «visioni mercantiliste che guardano solo alla competitività dell’offerta, magari riducendo i salari e, quindi, la capacità di acquisto dei lavoratori».
Si può osservare che una leva da tener presente in questa congiuntura è la decisione dell’Unione europea, che a gennaio 2014 ha varato una linea di politica industriale condivisa, destinando 140 miliardi di euro dai fondi strutturali in sei settori chiave (auto verdi, ecocostruzioni, materie prime, tecnologie abilitanti, reti intelligenti, bioprodotti e manifatturiero avanzato) e altri 40 miliardi di euro sul programma di innovazione e ricerca Horizon 2020. Quanto di questo intervento avrà ripercussioni positive in Italia? Aspettiamo i dettagli di questo piano per il lavoro.