Le storie del dolore

La 23ª edizione sui film dell’Est europeo premia lo slovacco “Dom” (La casa). Racconto di un mondo in ricerca.
Zuzana Liovà

Dura da ventitré anni, il Trieste Film Festival, chiuso il 25 gennaio. In una città di cinefili, terra di migrazioni tra Est e Ovest, multiculturale e multilingue, una rassegna cinematografica è un punto di osservazione attento, e preciso, su quanto si muove oggi in quella parte dell’Europa che va dalla Lituania ai Balcani, alla Grecia. Essa vi è rappresentata in decine di lavori – corti e lungometraggi, documentari, rivisitazioni di autori come il grande e poco noto polacco Grzegorz Królikiewicz – che scavano sull’umanità contemporanea con uno stile scarno, essenziale, fatto di silenzi e di paesaggi. Un cinema di sguardi e di poche parole. Ma che parole, e che sguardi.

 

Poco noto, per non dire boicottato dai distributori, il cinema dell’Est è una lezione d’arte severa, ma cordiale: tratta di un mondo che, dopo il comunismo e il postcomunismo, appare in ricerca di valori nuovi, di sicurezze. Lo descrive in opere che sfiorano il capolavoro, come il greco Adikos Kosmos (Mondo ingiusto), dove il poliziotto che vuole mettere insieme amore, onestà e giustizia è l’immagine di un Paese in tensione sociale; o un road movie, che occhieggia a certo cinema americano, come Avè, incontro esistenziale fra due ragazzi autostoppisti in Bulgaria; oppure il rumeno Loverboy sui giovani che avviano alla prostituzione le ragazze… Storie spesso dure. Ma con che misura il cinema bulgaro, rumeno o slovacco sa raccontare il dramma! Si ferma sempre un minuto prima di scendere di livello: accenna, ma non descrive (una lezione, per certo cinema occidentale).

 

Così nel film vincitore Dom (La casa) della slovena Zuzana Liovà – premiato non dalla solita giuria di “esperti”, ma dal pubblico (!) –, il padre che vuole costruire una casa per le figlie, ma si trova di fronte agli imprevisti della vita, è sì narrazione di incomprensioni generazionali, eppure non lascia mai spazio alla disperazione.

 

Perché – e questo è lo specifico della rassegna triestina – ogni nota dolorosa non permette mai all’uomo di morire del tutto dentro di sé. Ma lascia uno spazio, anche tenue, a un recupero del senso della vita. Oltre il dolore.

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