Le società liberali e la guerra, intervista a Flavio Felice
Nell’ambito dell’approfondimento dedicato alla questione della guerra in Ucraina, dando spazio a diverse letture e analisi, abbiamo intervistato il professor Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università del Molise (Campobasso).
Da studioso del pensiero cattolico liberale, come si può leggere il passaggio di Sturzo dalla fase di interventismo democratico nel primo conflitto mondiale al programma del Partito popolare che nel 1919 incluse tra i principi cardine il disarmo universale e la promozione della Società della Nazioni? Cosa è cambiato nel frattempo?
La ringrazio per questa domanda, mi consente di offrire una chiave interpretativa di uno degli aspetti più problematici della lunga vicenda umana di Luigi Sturzo. Iniziamo col dire che la riflessione sturziana non è astratta; non è un caso che lo stesso Sturzo definisca il suo metodo “sociologia del concreto” e che autorevoli interpreti del suo pensiero filosofico individuino la categoria del “relativismo storico trascendentale”. Ciò detto, Sturzo vive in un’epoca sconvolta dalla guerra totale e il suo pensiero su guerra e pace è stato tutt’altro che statico; nel corso di cinquant’anni cambierà radicalmente. Tutta l’opera di Sturzo, in tema di guerra e pace, sarà il tentativo di trovare risposte, sempre più convincenti e articolate, tanto al problema della guerra in corso, quanto alla ricerca delle condizioni che avrebbero potuto renderla un istituto impraticabile e anacronistico; dunque, sempre e comunque illegittimo, al pari della schiavitù. Lei mi chiede che cosa è cambiato tra lo Sturzo che sostiene la giustezza della guerra d’Abissinia e della prima guerra mondiale e lo Sturzo che già nel 1929 teorizzava una coalizione di volenterosi per il disarmo totale e unilaterale. Ci sono diversi fattori che andrebbero considerati, ma è impossibile farlo in poche battute. Innanzitutto, non andrebbe dimenticato che lo Sturzo della guerra d’Abissinia ha 24 anni, mentre lo Sturzo che giunge al ripudio totale della guerra e degli armamenti (1929) è passato per il disincanto dal mito coloniale, nutrito anche da una certa retorica bellica praticata dalle gerarchie cattoliche; è passato per il totalitarismo fascista, che per Sturzo avrebbe portato inesorabilmente alla guerra; è passato soprattutto per la letteratura delle grandi opere della tradizione del liberalismo anglosassone; non dimentichiamo che Sturzo ha vissuto 22 anni in esilio tra Londra e New York (1924-1946) e durante questo periodo è entrato in contatto con la letteratura liberale che rappresentava l’unico baluardo alla violenza totalitaria: fascista, nazista e comunista.
Ha da poco pubblicato un interessante libro su Michael Novak, intellettuale di primo piano di quel filone filosofico e teologico che ha sostenuto la politica di Bush e in particolare la guerra in Afghanistan nel 2001 e in Iraq del 2003. Sono ancora valide, a suo parere, le ragioni che giustificarono quei conflitti come anche l’intervento militare in Libia nel 2011?
Diciamo innanzitutto che Novak è l’autore di The Spirit of Democratic Capitalism, premio Templeton 1994, come Chiara Lubich e Madre Teresa di Calcutta, tanto per fare due nomi. Le opere di Novak sono state tradotte e pubblicate clandestinamente in Polonia e in Cecoslovacchia e alimentarono la dissidenza al totalitarismo comunista; in seguito Novak è diventato uno degli intellettuali più ascoltati da San Giovanni Paolo II. La mattina dell’11 settembre del 2001 gli statunitensi hanno visto crollare davanti ai loro occhi il World Trade Centre, hanno assistito all’attacco al Pentagono e un altro aereo era diretto sulla Casa Bianca; in un giorno sono morte circa 3.000 persone. Novak ha condiviso il dramma di una intera popolazione, non la linea Bush; un intero popolo che si era stretto intorno al suo presidente. Il popolo americano, attaccato da un nuovo totalitarismo, si è scoperto vulnerabile: “la società aperta è aperta a tutti, tranne che agli intolleranti”. È una nota frase di Karl Popper che esprime le difficoltà che provano le società aperte quando sono attaccate da società chiuse. In quel momento Novak ha condiviso il sentimento della stragrande maggioranza della popolazione americana: repubblicana e democratica; non dimentichiamo che George W. Bush è stato eletto al secondo mandato con oltre il 70% dei consensi; Novak non ha sostenuto la linea Bush, ma la linea prevalente negli USA. Le ragioni di quelle guerre sono tutte da ricercare nell’attentato dell’11 settembre e nel tentativo dei governi occidentali (non dimentichiamo il ruolo svolto dal laburista Tony Blair) di comprendere come impedire che altri attentati si verificassero. Lo ripeto, le società libere sono vulnerabili e decisamente fragili di fronte a chi combatte facendosi saltare in aria nei mercati e per le strade del centro. Per concludere, la linea di Novak non andrebbe confusa con quella “neocon” del “globalismo democratico” – i cosiddetti “falchi del Pentagono” – e dell’“esportazione della democrazia”. Novak, semmai, era più vicino alle posizioni del “realismo democratico” e del “contagio democratico”, diffondendo una cultura del rispetto della persona umana che possa favorire conseguenze sul piano istituzionale.
Cosa si può fare, a suo parere, per porre fine alla guerra in Ucraina davanti all’impotenza dell’Onu? Quale può essere un punto di mediazione possibile per fermare la carneficina in atto?
Al netto dell’impotenza dell’ONU, tutto va tentato e sono certo che tutto si stia tentando per porre fine all’invasione dell’esercito russo sul territorio di un paese democratico, libero e con un presidente, un governo e un parlamento legittimi. Bisogna partire da questo dato di realtà per iniziare a ragionare su cosa fare per porre fine all’invasione russa. Siamo di fronte ad un vicolo cieco; da un lato non c’è alcun dubbio che non abbiamo altra soluzione che quella negoziale, d’altro canto, il negoziato registra le posizioni di forza sul campo di battaglia e in guerra la forza si misura con il potenziale distruttivo di cui si dispone. Oggi il negoziato fa registrare una superpotenza nucleare che ha aggredito la Repubblica ucraina e la possibilità che l’esercito russo rada al suolo ogni città di quella Repubblica: il negoziato significa riconoscere che la Federazione russa possa annettere l’intera Ucraina o (bontà sua) una parte di essa; ad oggi, la mediazione potrebbe riguardare solo quanta Ucraina finirebbe per entrare direttamente nella sfera politica russa e quanta sarebbe lasciata neutrale e sotto la perenne minaccia che possa essere inglobata dall’impero russo in un prossimo futuro. Data la situazione, la popolazione ucraina non è disposta nel 2022 a farsi annettere e sta lottando per la propria libertà. Perché mai un qualsiasi ucraino dovrebbe accettare l’idea di rinunciare alla libertà di pensiero, di stampa, di associazione per diventare suddito di un impero dittatoriale? E con quale diritto noi pretenderemmo che gli ucraini non lottino per difendere il presente e il futuro loro e dei loro figli? Chi saremmo noi per decidere quali ideali un ucraino dovrebbe ritenere meritevoli di essere perseguiti e, eventualmente, per quali ideali dare anche la vita? I nostri nonni hanno combattuto per la nostra libertà, hanno sconfitto il nazifascismo sul campo di battaglia.
Considerandolo un sostegno alla legittima difesa di un popolo, l’invio di armi al governo ucraino, deciso a rispondere all’invasione di Putin, quale esito può raggiungere tale fornitura già abbondantemente assicurata dagli Usa e Paesi Nato?
Credo che possa raggiungere l’unico esito che consenta alla popolazione ucraina e alla comunità internazionale di uscire dal vicolo cieco. Se il negoziato registra le posizioni di forza e consente di individuare solo soluzioni che le fotografano e le cristallizzano, non ci resta che fare del nostro meglio per riequilibrare quelle posizioni. Se siamo d’accordo che nel 2022 è inammissibile che l’esercito di uno Stato violi con i carrarmati i confini, con il deliberato intento di annettere un altro Stato, distruggendone le città, ammazzando e violentando i civili, dobbiamo impedire che le trattative fotografino un rapporto di forze per cui l’invasore possa permettersi di ottenere ciò che riteniamo inammissibile. Per questa ragione, ritengo che l’aiuto alla popolazione e all’esercito ucraino debba continuare fino a quando la popolazione ucraina ce lo chiede, a meno che non si voglia tollerare, divenendone complici, che, nel cuore dell’Europa, nel 2022, una dittatura a vocazione totalitaria possa seminare violenza e distruzione, possa annettere Stati indipendenti sulla base di risibili e anacronistiche mire imperialistiche. La popolazione ucraina sta resistendo anche per noi; in gioco ci sono due idee di comunità internazionale: quella liberal-democratica che, con tutti i suoi limiti, ci consente di vivere relativamente in pace, e quella imperialistica a vocazione totalitaria, nella quale nessuno di noi credo – e voglio sperare – abbia in animo di vivere.
Il coinvolgimento diretto della Nato è frenato dalla minaccia dell’arma nucleare, ma esiste una linea rossa (ad esempio l’uso di armi chimiche) oltre il quale è giustificato intervenire militarmente anche davanti al pericolo di passare da una guerra convenzionale ad una nucleare senza ritorno?
In linea teorica, questa è la “linea rossa” tracciata dall’Amministrazione democratica statunitense, durante la presidenza Obama. Al momento, la resistenza ucraina sembrerebbe che stia contenendo l’avanzata dell’armata russa, le sanzioni economiche immagino che stiano toccando gli interessi dell’élite putiniana, oltre che il fabbisogno della popolazione russa (altra vittima di questa sciagurata guerra), un minimo di resistenza morale alla dittatura di Putin da parte degli intellettuali sembrerebbe manifestarsi; insomma, la resistenza all’invasione dell’esercito russo starebbe avvenendo su più fronti e, oltre ad indebolire militarmente l’esercito sul campo di battaglia, ci si augura che susciti una ribellione civile all’interno della Russia che, ad oggi, però, non sappiamo quali effetti potrebbe avere. Se l’esercito russo dovesse ricorrere all’uso di armi chimiche o di armi nucleari è evidente che saremmo di fronte ad una escalation e la comunità internazionale potrebbe ritenere superata quella “linea rossa”. È per questa ragione che la resistenza a Putin non può essere solo militare, ma è compito della comunità internazionale operare sulla società civile russa e sulla flebile dissidenza al dittatore. Al momento possiamo solo sperare nella resistenza ucraina, nel riequilibrio delle forze in campo e in una tregua che apra ad un negoziato vero; tuttavia, la tregua non è la pace, il “governo della pace” significa orientare il conflitto politico all’interno dei binari delle istituzioni di pace: si vis pacem, para institutiones, affinché la guerra sia posta fuori legge dal diritto internazionale, impensabile ricorrervi e ritenuta un orrendo anacronismo della storia.
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