Le scuse di Rossi
Alla fine, hanno chiesto scusa. Delio Rossi, alla gente di Firenze, alla società, ai giocatori, «e anche a Ljajic», con quella congiunzione («anche») che lascia trasparire un certo disagio nel dover chiedere scusa a chi lo avrebbe profondamente offeso. Adem Ljajic, ai compagni, alla società, ai tifosi, ma non a Rossi, ammettendo però di aver sbagliato a reagire in quel modo alla sostituzione.
Tutto è bene quel che finisce bene? No di certo, e non solo per le pesanti conseguenze che l’incredibile episodio avvenuto mercoledì sera durante Fiorentina-Novara ha provocato (Rossi esonerato e squalificato per tre mesi, Ljajic multato e messo fuori rosa). Di grave, in questa vicenda, c’è molto altro. C’è la sconcertante maleducazione di un giocatore, c’è l’inqualificabile scatto d’ira di un allenatore, e c’è soprattutto la conferma che il pallone nostrano è proprio finito fuori strada. Perché, senza voler per questo giustificare l’ingiustificabile, vien da chiedersi come mai un tecnico stimato e apprezzato (a livello professionale e, soprattutto, umano) come Rossi possa perdere le staffe a quel modo con un proprio giocatore. E allora, forse, sarebbe meglio tener presente che il ruolo dell’allenatore, stretto nella morsa del giocatore che pretende di giocare “per grazia ricevuta”, del presidente che è sempre pronto a cacciarlo (quest’anno, 19 cambi in panchina nella sola Serie A) e del tifoso dall’insulto (e non solo) facile, sta diventando davvero insostenibile.
Pressioni eccessive, spesso e volentieri alimentate dalla stampa, che non consentono certo di lavorare con tranquillità. Manca il rispetto per la persona, e l’allenatore è quello che paga sempre, per tutti. Difficile, dunque, non provare un minimo di comprensione per Rossi, soprattutto se si pensa al suo modo di essere e di allenare (ad eccezione di quei dieci secondi di follia). E fa anche un po’ specie che a dare lezioni di comportamento sia un presidente, Andrea Della Valle, già condannato (soltanto in primo grado, ma il concetto non cambia) a un anno e tre mesi per frode sportiva.
Una delle tante contraddizioni, non certo la più grave, di questo calcio italiano ormai fuori da ogni regola. Perché quando, a otto giorni dalla morte di Piermario Morosini, i “tifosi” del Genoa non hanno di meglio da fare che tenere sotto scacco la loro squadra intimando ai giocatori di togliersi la maglia, e una settimana dopo giocatori e dirigenti della Lazio aggrediscono (verbalmente e non solo) un arbitro per un gol sostanzialmente inutile, allora anche la vicenda Rossi-Ljajic sorprende fino a un certo punto.
In Gran Bretagna, mica su Marte, i tifosi del Wolverhampton retrocesso da settimane nella Serie B inglese continuano a riempire lo stadio e a seguire la squadra in trasferta come se niente fosse. Qui da noi, ci va di lusso se i sostenitori di un club ormai condannato si limitano a disertare lo stadio senza fare danni. Speranze che tutto finisca? Poche, pochissime. Presto, magari già domenica, in casa Juve potrebbe arrivare lo scudetto numero 28 della storia facendo finta che si tratti del trentesimo e pretendendo, in barba a ogni decisione della giustizia sportiva, di incidere la terza stella sulle magliette da gioco. Di conseguenza, al Milan non ci si sottrarrebbe dal ricordare il gol fantasma di Muntari, considerato decisivo ai fini del campionato, dimenticandosi dei cinque punti persi successivamente contro Fiorentina e Bologna.
Ma siamo proprio sicuri che Wolverhampton non sia su Marte?