Le scomode verità sulla Siria e il silenzio degli Usa/2
Cosa sta accedendo veramente in Siria? Dopo Le scomode verità sulla Siria e il silenzio degli Usa pubblichiamo di seguito la seconda parte del nostro approfondimento.
Sulla crudeltà delle sanzioni e dei bombardamenti ha puntato il dito Madelein Hoffman direttrice di New Jersey peace action. Anche lei, come tutta la delegazione, non sapeva che le condizioni imposte dagli Usa erano pari a quelle imposte in Iraq e che, su ammissione della stessa amministrazione americana, erano costate la vita ad mezzo milione di bambini.
“Niente medicine e niente latte in polvere. Ma anche nessun ricambio per le macchine delle industrie che non vorrebbero chiudere e continuare ad impiegare gente che nella disperazione rischia di passare dall’altra parte, dove i terroristi vengono ben foraggiati dai loro benefattori”. “Non posso tacere quello che ho visto – ripete senza sosta Madeline -, in Siria non c’è una guerra civile: il popolo siriano è con Assad per lottare contro questi mercenari, che modificano costantemente nome per impedire di identificare chi li manovra. Solo così si spiega una così ferrea resistenza che ha fatto demordere gli Usa e i suoi alleati da un intervento sullo stile di quello fatto per Gheddafi in Libia o Saddam in Iraq”.
Non poca sorpresa suscita nella delegazione il constatare che l’assistenza sanitaria e l’istruzione siano praticamente gratuite o sostenute da contributi esigui. La soluzione al conflitto proposta dai rappresentanti di queste associazioni pacifiste si articola in tre punti: fermare le sanzioni; chiudere le frontiere con la Turchia per impedire ai mercenari di rifornirsi ed infine portare alla ragionevolezza gli States, “che supportano direttamente e indirettamente queste milizie”.
Quanto sia scomodo conversare con una persona a cui hanno ucciso un figlio, un nipote e con una figlia vittima di violenza, lo sa bene Dona Nasser, che alle richieste dei partner aggiunge la necessità che il popolo siriano si autogoverni senza ingerenze esterne. “Da studiosa della giustizia riparatoria, sono rimasta impressionata dal lavoro del ministero della Riconciliazione – afferma la Nasser. – Nonostante il trauma che tutti stanno vivendo si pensa al futuro con un approccio non accusatorio. Si invita chi si è unito ai mercenari a tornare indietro e ad abbandonare le armi, con la garanzia che anche le loro famiglie sono sostenute”. Si scalda la ricercatrice quando i giornalisti presenti chiedono della giustizia armata di Assad, del suo arsenale, delle torture. “Noi abbiamo visto un presidente che sta cercando di mantenere in piedi le strutture del suo Paese con tutte le sue forze e voi credete davvero che vada a bombardare i suoi stessi ospedali?”.
A chiudere la conferenza è Joe Jameson, che sottolinea la decisionalità della battaglia per riconquistare Aleppo. “Usare le rivalità regionali e i legami tra Arabia Saudita, Qatar, Fratelli musulmani contro uno stato che l’Onu considera legittimamente governato da un presidente eletto sotto il controllo dei suoi osservatori, è illegittimo. Gli Usa devono smetterla di supportare modelli di Islam malati mentre a Damasco per secoli l’Islam è stato più inclusivo e plurale di altre realtà nella stessa regione. Devono smetterla di voler cambiare un governo di unità nazionale e di bombardare sul Paese senza nessuna autorizzazione”.
Il serrato botta e risposta con i giornalisti ha fatto sedere i pacifisti sul banco degli imputati. Sono stati accusati di connivenza con Assad per averlo incontrato, di propaganda perché sostengono una visione parziale e condizionata, di superficialità perché non hanno visitato i depositi di bombe governativi. Qualcuno ha persino chiesto se il viaggio fosse stato offerto dal presidente, ma tutti hanno negato, dimostrando l’autofinanziamento.
L’altra faccia della guerra non piace, scomoda, costringe a non accontentarsi delle versioni ufficiali. E’ quello che anche Città Nuova in questi anni ha provato a fare dando voce ai testimoni diretti della guerra, che non sono schierati pro o contro Assad, ma sono tutti in prima linea per la pace, per la fine di un conflitto insensato che ha distrutto il loro paese.