Le Scene liriche di Čajkovskij

Su musica di Čajkovskij le scene liriche in tre atti "Evgenij Onegin", un’opera che continua a sorprendere dal 1879. Molto bella l’edizione che offre il Teatro dell’Opera di Roma fino al 29 febbraio

L’Eugenio Onegin del maestro russo. Più che di un’opera tradizionale, si tratta di una rivisitazione del melodramma come lirismo, sentimento. Più che romantica, postromantica. Se infatti il classico binomio amore-morte finisce in genere con la morte di uno (Ernani,Traviata, Lucrezia Borgia, Carmen) o di entrambi i protagonisti (Norma, Lucia, Trovatore), qui non c’è nessuna morte fisica.

Ma la morte dell’anima, l’impossibilità dell’amore è uno strazio che la musica ipersensibile di un maestro come Piotr Ilic non poteva ignorare. I tre atti del lavoro infatti, tratti nella linea essenziale dal romanzo di Puskin, risultano in controluce i l ritratto del compositore stesso, del suo dissidio fra vita e morte acuito da una emotività al grado massimo.

Dal 1879 perciò quest’opera continua a sorprendere con la storia dell’amore prima negato poi esploso fra Onegin e Tat’jana, ma arrivato troppo tardi da parte dell’uomo per venire corrisposto.  È l’occasione perduta per il rischio che comporta l’amore, il non capire il tempo propizio a causa della superbia che impedisce a Onegin all’inizio di comprendere il cuore della giovane Tat’jana.

Quando ci riuscirà sarà troppo tardi, lei resterà fedele all’uomo che ha sposato. I tre atti scivolano veloci nelle grandi arie, autentiche effusioni liriche e drammatiche (scena della lettera, atto primo, eco della Traviata?), nei cori deliziosi, nel celebre valzer dell’atto III gonfio di gioia e nel finale straziante, incisivo, vera morte senza morire.

La musica è folgorante nella bellezza del canto, nell’orchestra che passa da toni crepuscolari (preludio atto primo), a linee sgargianti, a cupe esplosioni conservando un’onda melodica flessuosa, ricca di colori e di impasti timbrici raffinati. Pathos certo, ma non patetismo. Sentimento di sicuro, ma non “decadente” per un musicista che “combina insieme” una inventiva originale ed echi occidentali (Bizet,Verdi,Gounod,e il poco amato Wagner) in un linguaggio dove s i celebra, nonostante tutto, la vita: cioè, l’amore.

L’edizione che offre il Teatro dell’Opera di Roma, dove arriva dopo 19 anni con protagonista allora Mirella Freni (cui è stata dedicata), è molto bella. Merito in primo luogo della direzione attenta, scrupolosa e appassionata di James  Conlon, un grande direttore che ama la musica più che il divismo (per fortuna sua e nostra).

L’orchestra risponde, si direbbe con amore, tanto sa essere dosata, partecipe, con i colori giusti insieme all’ottimo coro.  Il cast è di grande valore: da Saimir Pirgu (Lenskij)ricco di sentimento a Markus Werba ( denso Onegin) a Maria Bayankina (Tat’jana), voci belle e fresche, a loro agio anche grazie alla regia misurata di  Robert Carsen che ha l’intelligenza di far gustare  la musica e i l canto senza trascurare una recitazione credibile, ai costumi ottocenteschi e moderni al tempo stesso.

Magistrale il gioco delle luci nell’ampio spazio glabro del palco: tenere e aurorali, dolci e notturne, festose e solari,  nebbiosamente sospese nella scena del duello. Con un sottotesto malinconico, minimalista,  che coglie  l’anima di questa musica appassionata e triste, raffinata e semplice:  musica del “cuore”.

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