Le risorse per la svolta

Quanti miliardi servono per ripartire? Patrimoniale o fondi di investimento? Una proposta.
Mario Draghi e Mario Monti

Dopo aver realizzato su patrimoni e rendite di posizione l'impossibile per un governo di destra e sulle pensioni l'impossibile per un governo di sinistra, il governo Monti, con l'occhio ai 30 miliardi all'anno di interessi da risparmiare ed utilizzare diversamente, facendo tornare il costo del debito italiano simile a quello dei Paesi del Nord, adesso tenta di incidere sulla legislazione del lavoro.
Compito difficile, in un Paese in cui vi è il vezzo di bocciare provvedimenti opportuni perché definiti "improponibili", vezzo che è una delle cause dell'enorme debito pubblico accumulato negli anni; compito particolarmente ingrato se si prospettano licenziamenti più facili, l’abolizione della cassa integrazione straordinaria e dell’indennità di mobilità, senza offrire in cambio un sistema di sussidi di disoccupazione durevoli nel tempo.
Tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando, grazie ai provvedimenti del governo Monti e all’inventiva del presidente della Bce Mario Draghi, si è allontanato il pericolo di vedere salire il costo del nostro debito a livelli tali da non riuscire più a restituirlo e fare la fine della Grecia.
Un risultato non senza conseguenze, che ha preso in contropiede lavoratori e aziende che intendevano ristrutturarsi grazie ai pensionamenti anticipati, mentre l'aumento dell'Iva e delle accise sui carburanti hanno provocato la contrazione dei consumi e di conseguenza del gettito fiscale.
 
Va detto però che, se si è evitato di scivolare nel baratro, non si è ancora riusciti ad allontanarsi da esso: per questo occorrono nuove risorse, che però non si possono prendere a prestito, perché ci siamo impegnati al pareggio di bilancio entro il 2013.
Gli interventi necessari sarebbero vari: per fare un po' di conti, assumiamo che ciascuno di essi richieda una o più tranche, "paccate", direbbe il ministro Fornero, da venti miliardi di euro ciascuna.
I primi renderebbero possibile una svolta nella battaglia all’evasione fiscale, che se vinta finanzierebbe da sola tutto quanto necessario: essi compenserebbero la riduzione delle entrate fiscali che si potrebbe verificare nel primo anno se si rendessero deducibili le spese per servizi documentate da fattura e codice fiscale, rendendo così conveniente l'esigere le ricevute fiscali.
Altri venti miliardi renderebbero possibile dare più risorse alle famiglie numerose e mono reddito tramite il "quoziente familiare" senza accrescere il carico fiscale sui single: altri venti miliardi permetterebbero poi di finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro, il famoso "cuneo fiscale", che farebbe crescere il netto in busta ai lavoratori e ridurrebbe le imposte sulla produzione.
Ulteriori venti miliardi permetterebbero di assicurare una indennità di disoccupazione di maggiore durata e abolire senza problemi la cassa integrazione straordinaria.
Altri quaranta miliardi consentirebbero di saldare buona parte dei debiti dello Stato verso le imprese, che oggi permettono di nascondere il fatto che il nostro debito supera i duemila miliardi.
 
Con 120 miliardi di euro una tantum potremmo quindi combattere efficacemente l'evasione, rilanciare i consumi e il lavoro e ridurre di almeno un terzo il costo annuale del nostro debito.
Dove cercare queste risorse? Le statistiche 2010 della Banca d’Italia dicono che la ricchezza delle famiglie italiane è pari a 8600 miliardi di euro: 5 mila di immobili e 3600 di attività finanziarie, di cui 1200 in depositi sotto i 50 mila euro.
Malgrado un risparmio delle famiglie di 50 miliardi nel 2010, questa ricchezza, per la perdita di valore di immobili e titoli si è ridotta di ben 180 miliardi di euro, una perdita naturalmente concentrata su chi aveva da perdere, sul 10 per cento di famiglie che detengono il 44 per cento della ricchezza totale, in media 1,6 milioni di euro ciascuna.
Ad esse lo Stato potrebbe rivolgersi per raccogliere quei miliardi, con una tassa patrimoniale del 4 per cento delle loro ricchezze, come alcuni partiti reclamano: ma si potrebbe evitare tale imposta portando invece quelle famiglie a sottoscrivere delle quote di un fondo di investimento dell'importo complessivo di 300 miliardi, che acquisterebbe dallo Stato al valore attuale immobili e terreni pubblici non di interesse comune: un fondo che potrebbe essere congegnato in modo da risultare un investimento anche più sicuro dei titoli di Stato, perché garantito da beni reali.
Questo Fondo di investimento dovrebbe essere amministrato da un liquidatore unico, scelto dal capo dello Stato tra quanti hanno già dato buona prova di sé: incassando il corrispettivo di quegli immobili, lo Stato avrebbe a disposizione quanto gli occorre e il debito pubblico scenderebbe subito al cento per cento del Pil.
Al liquidatore dovrebbe essere garantita per legge una corsia preferenziale per ottenere dalle amministrazioni locali destinazioni d’uso per gli immobili acquisiti tali da favorire l'aumento del loro valore, in modo da poterli rivendere a privati, rimborsando con un utile le quote dei sottoscrittori; comunque dopo cinque anni tutte le quote rimanenti sarebbero rimborsate dallo Stato, che si impegnerebbe a riacquistare l'invenduto al prezzo di conferimento, rivalutato dell'inflazione.
 
Ad ogni italiano dovrebbe essere offerta l'opzione di sottoscrivere quote del fondo, ma ai cittadini con beni che superano un milione di euro dovrebbe essere fatto obbligo di sottoscriverne per il 7 per cento della loro ricchezza. Chi non volesse o potesse attenderne il rimborso, potrebbe vendere le quote sul libero mercato.
Ritornare un Paese affidabile e in sviluppo è di vitale interesse per chi deve costruirsi un oggi e un domani, ma lo è altrettanto per chi potrebbe veder evaporare il valore di quanto possiede, che lo abbia guadagnato onestamente, lo abbia ereditato o lo abbia accumulato per vie non condivisibili.
Questa strada, se percorsa con trasparenza, alla luce del sole e in tempi brevi, potrebbe rivelarsi un’occasione di sviluppo economico e anche di profitto diffuso: diversa dalle passate operazioni di cartolarizzazione affidate a grandi banche con risultati inconcludenti o spreco di risorse pubbliche a unico vantaggio di pochi furbetti.

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