Le radici delle mangrovie

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Quando Dominique Lapierre, autore del best seller La città della gioia, incontrò per la prima volta Gaston Dayanand, non fu sorpreso di vedere un occidentale vivere in una delle bidonville più inumane di Calcutta: dopo Madre Teresa, molti europei avevano sentito la spinta a condividere la tragica situazione dei poveri nel continente asiatico. Più tardi, seguendolo nel suo lavoro, Lapierre intuì che quell’uomo portava in India un qualcosa che affascinava e coinvolgeva, a tal punto da diventare uno dei suoi più convinti finanziatori. Nato a Ginevra nel 1937 da una famiglia operaia, Gaston Grandjean (prende il nome di Dayanand nel 1992 quando gli viene concessa la cittadinanza indiana) dopo aver terminato gli studi si trasferisce in Francia per lavorare come manovale acconto agli immigrati neri e arabi di Lione, Marsiglia e Parigi. A Lione diventa membro attivo dell’Istituto del Prado, fondato da padre Antoine Chevrier. Consegue poi il diploma di infermiere nel 1972 e parte per Calcutta, intenzionato a stabilirsi tra i più poveri. Si collega subito con il servizio di mutuo soccorso (Sea) fondato nel 1966 da padre François Laborde, e vive per oltre vent’anni nello slum di Pilkhana, intraprendendo numerose iniziative in campo medico e rurale, soccorrendo le popolazioni nelle alluvioni, aiutando a debellare malattie endemiche e mortali. La sua testimonianza autobiografica è stata pubblicata in Italia da Il Saggiatore col titolo Le radici delle mangrovie. In quanto cristiano, Gaston Dayanand sente che Dio gli chiede di amare tutti gli uomini di qualsiasi religione o credo ideologico. La sua intuizione, messa subito in pratica, è che non si può aiutare un popolo senza una profonda comunione di vita, di azione e di preghiera. Fa suo il proverbio: Tutto ciò che non è dato è perduto, e sperimenta che l’uomo è più grande delle avversità, come recita un verso di Tagore. Il suo impegno, caratterizzato dalla collaborazione fraterna tra cristiani, musulmani, indù e uomini senza riferimento religioso, contribuisce a far crollare pregiudizi secolari che vedono i cristiani come colonizzatori a servizio della potenza economica e impositori della propria fede religiosa. Spesso egli si trova faccia a faccia con i padrini della mafia, gli zamindar delle grandi proprietà terriere, con sfruttatori della manodopera, banditi che organizzano ogni tipo di traffico, mercanti di droga e sesso, ma la sincerità della sua parola, unita ad un indomito coraggio, lo vede il più delle volte vincente. La sua è la storia accanita e grandiosa dei piccoli contro i grandi, dei deboli che, a forza di volontà e coraggio, riescono a vincere contro i forti e a cambiare le cose, proprio come avviene alla foce del fiume Gange, dove una vegetazione primitiva e tenace – la mangrovia – sconfigge l’invadenza dell’oceano e bonifica le terre piene di sale e sollecita ogni forma di vita – animale o vegetale – ad adattarsi per trasformare quello che in origine era un luogo invivibile e irrespirabile in un ricco humus fertile da cui il mare finirà per allontanarsi. Egli è convinto che se non sappiamo ascoltarli e dar loro fiducia, i poveri accetteranno sempre di ricevere tutto dall’esterno (denaro, lavoro, trasformerà in mendicanti… Lo sviluppo che tende soltanto al progresso materiale è un illusione pericolosa. Quelli che contano sono solo gli sviluppi quotidiani motivati dalla seguente speranza: l’evoluzione di ogni uomo e di ogni donna, di volta in volta attori, beneficiari e benefattori… è un evoluzione che deve tendere non a un maggiore benessere ma piuttosto a una pienezza dell’essere, a una maggiore umanità. È stata questa convinzione a dare forza alla sua azione. Qualcuno in occidente benevolmente lo rimprovera per l’uso frequente della parola povero nei suoi discorsi, ma lui fuga ogni perplessità: Non siamo in Europa, ma in India dove il termine poor è comunemente accettato. Quasi tutti gli abitanti, nelle varie lingue, usano questo termine per parlare dei poveri dal punto di vista economico e sociologico… Per me cristiano, inoltre, questa parola assume la sfumatura evangelica di beatitudine… Sono loro che illuminano le tenebre delle gloriose megalopoli con la gioia serena delle semplici condivisioni, con la fiducia esitante ma reale che riunisce quelli che tutto dovrebbe separare; con la fede ostinata del credente che sa accompagnare, giorno dopo giorno, l’azione del suo Dio o della sua divinità, quali che siano il suo nome e la sua forma. Ad un giornalista che gli chiede se è soddisfatto del suo lavoro, così risponde: Certo che no. Non lo sono per niente. Mi sento un po’ come il vecchio pescatore de Il vecchio e il mare di Hemingway. Ho lottato molto e ho portato a riva solo lo scheletro del pesce spada gigante. Ma l’ho fatto con gioia, con molta gioia e questo ha permesso a una numerosa flotta di barche di pescatori di gettare le reti lontano e a largo e con successo, di tenere saldamente al laccio squali affamati, tempeste e venti contrari. In una filosofia dello sviluppo di tipo gandhiano e cristiano non c’è posto per il fallimento poiché ogni azione ha valore in sé, indipendentemente dal risultato. La Bhagavad Gita e il Vangelo si danno la mano. La gioia e la serenità sono e saranno sempre i frutti raccolti.

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