Le radici della libertà
Chi c’era non può dimenticare. Neppure ha potuto né può ancora oggi chiamarsi fuori. E non dico soltanto chi si trovava a Budapest, in quei giorni, tra fine ottobre e i primi di novembre del ’56, ma chi in tutt’Europa e nel resto del mondo era vivo e cosciente. Perché seppe e vide, perché fu informato. Perché ancora ricorda quei momenti sia che si trovasse dall’una parte o dall’altra della barricata ideologica che divideva il mondo. La guerra che ci aveva devastati fino a una decina d’anni prima aveva liberato l’Europa dai totalitarismi soltanto per metà, lasciando gran parte del centro e tutto l’Est del continente alla mercè di un’altra dittatura. E all’Ovest l’impotenza, la paura e la rabbia per i troppi che ancora negavano l’evidenza dei fatti. Quel 23 ottobre, sembra spirare un’aria nuova. Come già Gomulka in Polonia, così Nagy è sul punto di offrire all’Ungheria una certa liberalizzazione. Nell’università tecnica di Budapest cinquemila studenti e professori hanno lavorato tutta la notte per proporre un programma democratico che si richiama al mitico 1848 di Petöfi. Si chiede il ritiro delle truppe sovietiche, il ritorno di Nagy al governo, l’applicazione della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma presto gli avvenimenti prendono la mano ai politici. Una manifestazione studentesca degenera in un tumulto; i militari inviati a sedarlo cedono le loro armi alla folla. Alle 21,30 viene abbattuta la grande statua di Stalin. Alla notizia, gli operai di Csepel e di Ujpest si uniscono alla manifestazione che si trasforma in una grande sommossa di popolo. I soldati fraternizzano con i manifestanti e inizia la caccia agli agenti che hanno sparato sulla folla. Imre Nagy, riabilitato, viene rimesso formalmente al potere e, davanti a un’insurrezione che ormai è dilagata in tutta la nazione, arriva a chiedere la denuncia del Patto di Varsavia, l’indipendenza e la neutralità. La speranza di avere ritrovato la libertà durerà appena una decina di giorni, certo venata nei più da una cosciente diffidenza: non era mai successo, fino allora che l’Unione Sovietica si ritirasse stabilmente da una posizione conquistata. L’illusione s’infranse del tutto la mattina del 4 novembre quando le colonne corazzate sovietiche che si erano ritirate nei loro acquartieramenti mossero su Budapest, travolgendo ogni resistenza. Che tuttavia ci fu e fu eroica durante un’intera settimana di combattimenti per le strade della capitale e in tutta l’Ungheria, come testimoniarono gli inviati della stampa internazionale ancora presenti, con drammatici reportage e servizi fotografici che ancora oggi vengono riesumati per dare conto di quei giorni. Morirono 25 mila ungheresi e 7 mila soldati sovietici; decine di migliaia di ungheresi vennero deportati in Russia e pochi di loro fecero ritorno; più di 250 mila ungheresi lasciarono il proprio Paese per rifugiarsi in Occidente. I capi della rivolta vennero catturati con l’inganno e furono giustiziati. L’Europa libera e il mondo furono spettatori inerti, impegnati in altre operazioni, come quella franco-britannica di Suez, che fu definita l’ultima guerra coloniale della storia. E restarono trincerati dietro l’alibi degli accordi di Jalta, nella presunzione che la Russia non avrebbe osato intervenire militarmente al di qua della Cortina di Ferro se l’Occidente non si fosse intromesso in quanto accadeva nei territori europei presidiati dall’Armata Rossa. Tuttavia, avvenimenti di questa portata non poterono lasciare indenni i partiti comunisti e i simpatizzanti dell’Urss nei Paesi occidentali. Soprattutto fra gli intellettuali si avviò un faticoso processo di ripensamento che più tardi la Primavera di Praga e infine la stagione polacca di Solidarnosc portarono a compimento. Il comunismo sovietico aveva perduto il suo fascino e la propria credibilità. Nell’89 sarà proprio l’Ungheria il primo Paese ad abbattere sul confine con l’Austria la Cortina di Ferro. E nel ’92 il presidente russo Eltsin, in visita ufficiale a Budapest, porgerà omaggio ai caduti della rivoluzione e presenterà in Parlamento le proprie scuse per quanto accadde nel ’56. Anche chi, come il nostro presidente Napolitano, cercò a quel tempo di giustificare l’intervento sovietico, iniziò un lungo percorso di revisione che lo avrebbe portato a compiere in questi giorni quasi un pellegrinaggio riparatorio sulla tomba di Imre Nagy a Budapest, per riconoscere che l’Europa di oggi ha una delle sue radici in quegli eventi ungheresi del ’56, prova più alta di quella linfa di libertà che alimentò il desiderio di autonomismo della società civile e la resistenza della sfera individuale, anche religiosa, di certo intellettuale, rispetto alla pressione della macchina totalitaria.