Le promesse e le rivolte

Avviato il piano di svuotamento dell'isola. Permangono problemi di cibo e alloggio per i tunisini rimasti, mentre tante domande non trovano risposte istituzionali adeguate    
lampedusa

Due giorni dopo l’annuncio del piano per restituire Lampedusa ai lampedusani, l’isola sta cercando una normalità che tarda ancora ad arrivare. Un segnale è stata la ripresa della scuola per i piccoli e le lezioni di catechismo nuovamente a regime. I migranti però sulle strade ci sono ancora. Stamane la nave non è riuscita ad attraccare per il cattivo tempo.

 

Le autobotti ripuliscono le piazze, l’esercito comincia a smantellare la collina della vergogna e a raccogliere i cumuli di spazzatura di queste settimane. Gli arrivi di mercoledì notte, 249, sono stati immediatamente dirottati all’aeroporto dove gli aerei di Poste italiane li imbarcheranno per trasferirli nei centri della penisola, «senza mettere piede a Lampedusa», come aveva dichiarato il presidente del Consiglio. Dove andranno non è dato saperlo, se non all’ultimo minuto, confermano anche i tecnici dell’aeroporto. «Si teme la rivolta delle regioni che dovranno ospitarli, per questo le comunicazioni vengono date in extremis – dichiarano –. Impossibile lavorare in questo modo, è faticosissimo e snervante». «Abbiamo già gestito altre emergenze, – continuano – ma il coordinamento non è mai stato così complesso e precario».

 

Le informazioni frammentarie sono quelle che giungono anche ai circa tremila tunisini ancora sull’isola o meglio per strada. Se il centro è stato svuotato, dai numeri esplosivi delle ultime settimane, come mai per loro non si trova riparo? La parola rimpatrio pronunciata da Berlusconi per far desistere da altre partenze passa di bocca in bocca e i timori scatenano immediatamente le proteste. Ieri mattina su via Roma in venti si sono stesi a terra mentre in serata circa un centinaio hanno con veemenza manifestato nella piazza principale. Vedono smantellate le baracche, nessuno spiega del loro possibile trasferimento, i pasti continuano ad essere arrangiati, nonostante la cucina da campo mobile, arrivata con il presidente. Non funziona perché costa troppo, dicono voci ufficiose.

 

La precarietà quindi persevera e i tunisini sono stanchi di un’ulteriore notte all’addiaccio. «Libertà» gridano. «Non siamo cani». Il peggio comunque anche stavolta è stato evitato grazie alle forze dell’ordine e a una nuova prova di disponibilità dei lampedusani che hanno incoraggiato i giovani alla pazienza, a non arrendersi proprio alla fine. Tutti si aspettavano questo rigurgito: troppo nervosismo, troppe poche informazioni, troppo prolungata l’emergenza.

 

Bisogna però prendere atto che il piano Lampedusa è cominciato. I fatti parlano. Ieri sono stati contati fino a dieci ponti aerei e lo svuotamento dell’isola avverrà presto anche se fuori dalle sessanta ore annunciate. Sulle destinazioni dei tunisini torniamo alla carica con il sindaco Dino De Rubeis, che sconsolato ci dice: «Nessuno vuole questi ragazzi. Ci stiamo scontrando con l’egoismo regionale». Fatica la solidarietà a far breccia nei muri di indifferenza o di accordi politici con cui si fanno scudo gli amministratori locali. Anche qui le informazioni sono sempre confuse, imprecise, variabili e questo gioca sulla credibilità delle azioni in corso.

 

La Caritas italiana già il 14 febbraio aveva chiesto di accordare ai tunisini un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma la risposta inizialmente positiva del ministro Maroni è stata rigettata dal Governo. Un tunisino confidandosi con padre Stefano Nastasi, parroco dell’isola, dichiarava: «Lampedusa è piccola, ma ha un cuore grande. L’Italia è grande, ma ha un cuore piccolo». Una considerazione che dovrebbe far riflettere, come la proposta semplice di Giovanni, pescatore di 82 anni, grande giocatore di briscola, che per i disordini al porto ha dovuto rinviare il suo torneo: «Se ogni paese italiano ne accogliesse appena cinque, il problema si risolverebbe subito. Cosa vuoi che siano cinque per tutta l’Italia. Noi lampedusani ce ne possiamo prendere pure dieci».

 

Certo dopo 48 ore dalla visita presidenziale lo scetticismo siculo è riemerso: «Non finirà qui. Tutti questi operatori sanitari annunciano altri arrivi. Ora sarà l’ora dei libici». E le domande persistono: Ma davvero tutto si è risolto solo perché è arrivato Berlusconi? Senza di lui ci avrebbero lasciati così? E poi se tante risorse locali sono impiegate ora per la pulizia perché non si è fatto prima? I lampedusani non commentano gli altri punti del piano, aspettano la prova dei fatti. Qui di parole ne hanno sentite troppe. Chiedono solo di non essere dimenticati. Dopo essere stati per giorni sotto i riflettori del mondo non vorrebbero che queste luci si spegnessero con la partenza dell’ultima nave.

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