Le priorità del presidente rieletto
Abbiamo raggiunto Pasquale Ferrara, nostro editorialista sulle questioni internazionali per un’analisi delle presidenziali americane e dell’impatto che la rielezione di Obama avrà sulle istituzioni mondiali e sulle aree calde del pianeta.
Europa e Stati Uniti: due mondi apparentemente lontani in questa campagna elettorale. Dopo la vittoria di Obama cosa si deve auspicare per queste due aree alleate, ma con posizioni talvolta distanti su tanti temi?
«In realtà non è vero che l'Europa è stata assente dalla campagna elettorale. Il rapporto tra queste due grandi aree non è entrato crisi. Non si è parlato direttamente di Ue, ma quando nei discorsi ufficiali si faceva riferimento alla disciplina di bilancio e ai debiti pubblici ci si rivolgeva direttamente all'Europa, anzi le azioni politiche europee sono state parte integrante
della campagna statunitense. Si parla spesso di patto euro-atlantico, di una partnership tra queste due aree come se tutte le parti del mondo ruotassero attorno a quest’asse. Oggi non è più così. In realtà il mondo sta cambiando in modo radicale e sta cambiando in altri scenari: Cina e Medio Oriente in primis. Ci sono crisi importanti da fronteggiare e sarebbe auspicabile una strategia non contraddittoria ma multilaterale. Ad esempio nel Nord Africa e in Medio Oriente l'Europa è stata molto timida, mentre gli Usa hanno visto questi movimenti come un'opportunità. Certo poi c'è il dramma della Siria: la soluzione militare del conflitto non è prospettabile, vanno cercati punti di convergenza. Poi occorrerebbe lavorare insieme a progetti
di riforma del Fmi, della Banca mondiale, di quello che è rimasto del G8, del G20, e fare in modo che queste istituzioni diventino sul serio rappresentative di una globalità presente in modo molto evidente nelle nostre economie e nei nostri Paesi».
Obama si ritrova un Paese diviso. Come se la caverà?
«Per Obama non è una novità perché nelle elezioni di middle term si è già trovato in una situazione di stallo istituzionale avendo la maggioranza contraria nella Camera dei rappresentanti. La novità di queste elezioni e non solo, perché è una situazione iniziata già con l’elezione di George W. Bush, è una polarizzazione sempre più accentuata. Noi pensiamo che tra Partito democratico e repubblicano ci sia una sostanziale convergenza perché sono entrambi partiti centristi, in realtà su molti temi la polarizzazione è accentuata sia dal punto di vista sociale che culturale. Quale idea di Paese mettere in atto era la domanda di fondo per entrambi».
Sorprende le passione politica con cui la gente ha partecipato…
«Non è una cosa negativa la passione politica, se ben indirizzata è sempre un valore. Ho apprezzato il pubblico riconoscimento che Obama ha fatto, nel discorso dopo la vittoria, della serietà e dell’impegno di Mitt Romney e dei suoi collaboratori, riconoscendo che entrambi cercavano la rielezione o l’elezione per il bene del Paese. Un gesto importante per la riconciliazione dei due schieramenti. Adesso ci sono scadenze immediate, come la riduzione in modo concordato del bilancio federale. Questo è il primo banco di prova sulla volontà di dialogo tra le due parti. Il rischio è che se i tagli dovessero essere indiscriminati gli Usa entrerebbero in recessione e con loro buona parte del mondo. Credo che non sia negativo che il presidente abbia una maggioranza parlamentare avversa. In fondo i padri fondatori volevano creare questa dialettica: avere un Congresso non amico costringerà Obama a studiare iniziative più bipartisan».
Se avessi in mano l’agenda di Obama quali priorità gli daresti?
«La prima priorità interna è trovare un meccanismo per ridurre la disoccupazione. Questo andrà fatto con un bilancio federale che subirà dei tagli. Una strategia potrebbe essere quella di creare una commissione mista di cui facciano parte economisti esperti dei due schieramenti, perché è un problema che tocca il Paese e devono essere mobilitate le migliori intelligenze. Altro aspetto importante messo in luce dall’ultimo uragano che ha colpito la costa Ovest è lo stato precario delle infrastrutture. Sembra strano parlare di questo pensando agli Usa, ma in realtà strade, ponti, reti elettriche non hanno visto interventi di ammodernamento anche da trent’anni. Questo richiede investimenti nell’ambito di margini che tengano sotto controllo il bilancio del settore pubblico».
E tra le priorità di politica estera cosa consiglieresti?
«Qui Obama gioca in vantaggio perché storicamente i presidenti americani al loro secondo mandato hanno più libertà d’azione: non devono essere rieletti e quindi non sono condizionati dall’elettorato e hanno davanti a sé quattro anni con un percorso già tracciato. L’iniziativa in Medio Oriente andrebbe rilanciata perché non è possibile avere questo buco nero nella politica internazionale e non tener conto dei cambiamenti del mondo arabo e islamico con tutti i problemi noti. L’unica cosa veramente congelata è il conflitto israelo-palestinese. Gli Usa devono rimettere in marcia il processo di pace, sul solco di Carter che ottenne un trattato di pace tra due nemici come Israele e Egitto. Questo significa creare un quadro di maggior sicurezza e maggior collaborazione nella regione, affrontando anche la questione iraniana.
Il secondo aspetto riguarda la governance mondiale. Ci sono aspetti che la crisi finanziaria ha messo in secondo piano come la lotta all’inquinamento e ai cambiamenti climatici. Questa è una tematica transnazionale, ma anche la sicurezza alimentare in Africa o ancora le pandemie. Gli Stati Uniti non hanno temuto di assumersi responsabilità su questi fronti. Occorre tener presente che i trattati poi vanno ratificati sempre dal Congresso, ma sono temi che riguardano l’umanità e non possono essere tralasciati da un presidente che è stato insignito del Nobel per la pace, dopo appena un anno di presidenza».
Come leggi la forte connotazione religiosa di queste consultazioni?
Gli Stati Uniti, nonostante ciò che erroneamente si pensa, non sono un Paese ateo, ma uno dei più religiosi del mondo se si guarda alle affiliazioni alle varie denominazioni cristiane o alle altre religioni. Sono un Paese che dal punto di vista istituzionale è assolutamente laico, anche la Costituzione impedisce che le istituzioni abbiano una caratterizzazione dettata da un credo religioso, ma questo non significa che la religione non sia presente. Entrambi i candidati avevano una visione del ruolo della religione nella società e nella politica, e le loro visioni erano nettamente diverse. Entrambi non si sono tirati indietro nel delineare la loro prospettiva: la parte repubblicana accentua l’impegno individuale e della comunità locale, mentre la declinazione democratica è più di carattere cosmopolita e più legata ai diritti individuali che all’identità. La religione non è fuori dall’impegno dell’americano medio: è però un impegno che si gioca più a livello sociale che politico-istituzionale, come invece in Europa con i democratico-crisitiani e con l'impegno diretto dei credenti in politica».
Obama ha davanti quattro anni, ma potrà permettersi di fare le stesse cose?
«Il mondo spera che faccia cose nuove. Siamo in una situazione di cambiamenti così rapidi che non si possono riproporre formule già trite. Un presidente al secondo mandato si può consentire libertà bipartisan rispetto a quello che deve assicurarsi la rielezione. Si applica in piccolo quello che pensava De Gasperi: “Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista pensa alle prossime generazioni”. Forse questo è l’augurio che si può fare ad Obama».