Le primarie del Pd tra identità e partecipazione

Il parere di Ernesto Preziosi, presidente del Censses (Centro Studi Storici e Sociali), prima del voto aperto agli elettori del Pd chiamati a scegliere il nuovo segretario del partito tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein. Il nodo della rappresentanza e della reale partecipazione in un quadro politico in rapido mutamento
Primarie del Pd Foto Claudio Furlan/LaPresse , Volontari consegnano i kit per i seggi

Alla vigilia delle elezioni primarie con cui, domenica 26 febbraio, gli elettori del Pd potranno scegliere il nuovo segretario del partito votando Stefano Bonaccini o Elly Schlein, abbiamo chiesto un parere ad Ernesto Preziosi, esponente della cultura cattolico democratica che ha ricoperto per una legislatura la carica di deputato del Pd dal 2013 al 2018 e quindi conosce le dinamiche associative come quelle del partito guidato finora da Enrico Letta.

Preziosi è uno dei maggiori conoscitori del pensiero di Giuseppe Toniolo, autore di numerosi saggi di storia contemporanea, tra i quali il volume Cattolici e presenza politica. La storia, l’attualità, la spinta morale dell’Appello ai «liberi e forti»”. Già direttore dell’Istituto Paolo VI per la storia dell’Azione Cattolica e del Movimento cattolico in Italia, è docente a contratto di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” e presidente del Centro Studi Storici e Sociali (Censses)  e di Argomenti 2000.

Il politologo Pombeni, esperto di storia dei cattolici democratici, ha dato un giudizio tranciante sul livello degli esponenti di tale area culturale all’interno del Pd. Non le sembra una posizione troppo dura a suo parere?
Che ci sia una profonda fragilità delle tradizioni politiche di matrice cattolico-democratica all’interno del Pd è un fatto reso evidente dalle dinamiche con cui si è articolato il discorso politico interno al partito. Non solo nei mesi del congresso: già durante la segreteria Letta si è preferito spostare l’attenzione del Partito su una serie di questioni giudicate “identitarie”, come il nodo dei diritti, declinate però con una generalizzazione che finiva per astrarsi dalla realtà delle cose, che è assai complessa quanto può esserlo la vita degli esseri umani. Già questo approccio ha ridotto i margini di culture politiche, come quella cattolico-democratica, che programmaticamente si fondano sulla mediazione con la realtà delle cose.

A questo si aggiunge l’inaridirsi delle fila del cattolicesimo democratico e la fatica nel restituire gambe su cui far camminare e crescere e maturare nuovamente quell’orientamento. Il combinato di tutto questo sono state liste elettorali attente più agli equilibri interni del partito (locali o nazionali che fossero) che allo sforzo di esprimere una capacità di autentica rappresentanza politica.

In generale, quali sono, a suo giudizio, le ragioni per cui i candidati delle primarie del 26 febbraio provengono entrambi da storie diverse da quelle dei cattolici democratici? Eppure ultimamente Letta ha ricordato che l’ultima volta che ha visto Sassoli gli aveva chiesto di guidare la coalizione di centro sinistra…
Prima di tutto occorre diche che rispetto ad un quadro che vede movimenti politici profondissimi, di cui l’alto tasso di astensionismo è un segno enorme, ignorato tuttavia dalle forze politiche, la scelta non può più essere ridotta alla competizione per una leadership individuale. Servirebbe un lavoro, certo faticoso ma proiettato, questo sì, sul futuro, di un’elaborazione diffusa della proposta politica, articolato nel Paese e capace di includere le forze vive e su cui quanti esprimono una cultura cristianamente ispirata potrebbero offrire un contributo efficace.

In assenza di questo lavoro culturale, nel rinchiudersi delle nomenclature che scelgono di non aprire spazi, nella vita del partito come nella formazione delle liste, alquanto di valido c’è nell’area cattolica, nell’associazionismo come nel terzo settore, non c’è da stupirsi se in luogo di una candidatura che esprima questa area culturale si preferisce ricorrere a trattative per ottenere qualche posizione.

Teme anche lei il rischio di scissione nel partito dopo le primarie in un panorama di ricomposizione di aree omogenee e non compatibili? Intanto l’obiettivo minimo del 26 febbraio anche se non esplicitato formalmente è quello di portare almeno un milione di persone nei gazebo.
La scissione è certamente una possibilità. E questo non perché sia una sorta di spada di Damocle che pende sull’esito del congresso del partito. Il quadro politico diffuso è in profondo mutamento e sono quindi inevitabili processi di riorganizzazione del quadro delle forze politiche, perché inevitabilmente ci sarà chi cercherà di dare risposte a frammenti di elettorato che si sente escluso da una dinamica politica che dalla costruzione della rappresentanza è passata prima a fasi sempre più esclusive ed è stata infine frantumata.

È una dinamica prettamente riscontrabile in Italia?
No. Queste dinamiche non sono solamente italiane, ma investono in generale l’intero panorama dei sistemi democratici, almeno in Europa. In Inghilterra la Brexit è stata voluta da un partito nato alla “destra” dei conservatori, che ha conosciuto il successo elettorale nel referendum sull’uscita dalla UE e in seguito ha spostato i conservatori su posizioni intransigenti come mai nella storia del Regno Unito. In Germania un fenomeno simile avviene con la CDU, mentre i Verdi svuotano una parte del bacino elettorale della SPD. Guardiamo poi alla Francia, dove il Presidente della Repubblica e il Governo sono espressione di una forza politica nata dalla frantumazione dei due schieramenti storici della V Repubblica. Il processo di mutamento è nelle cose e il quadro politico muta perché o si adatta o è trascinato, suo malgrado, dalla realtà.

Si sente di indicare, a partire dall’esperienza che ha vissuto da deputato, i cambiamenti necessari nel partito a livello organizzativo?
Prima ancora che ragionare sulle questioni organizzative, il Pd ha la necessità di ripartire dal nodo politico e culturale della rappresentanza, che è poi il modo di cercare una risposta alla domanda: come possiamo articolare una dinamica politica pienamente democratica nella cornice sociale e culturale così frammentata e atomizzata del presente?

Quali punti concreti di programma dovrebbero segnare l’identità del Pd?
Sono le grandi questioni che l’oggi impone, dal tema dell’equità socio-ambientale a quello della costruzione della pace, fino ad una nuova traduzione politica dell’intreccio fra diritti e doveri. Tutto questo passa per la costruzione di una rappresentanza politica che fondi la democrazia per il XXI° secolo. Le strutture e le forme non possono che modellarsi sulla risposta che diamo a questo interrogativo, perché attribuiscono un determinato colore a strumenti utili, come ad esempio i processi partecipativi o di consultazione diffusa fissati in alcuni dispositivi di legge. Penso, ad esempio alla legge sulla partecipazione della Regione Marche, che esiste anche su iniziativa di Argomenti 2000 ma è inapplicata per il disinteresse dell’attuale giunta regionale.

Ma uno dei problemi della partecipazione non è la difficoltà ad incidere realmente sulle scelte che contano?
In effetti il tema della rappresentanza e della democrazia non può che essere affrontato in chiave europea: il Covid prima e la guerra in Ucraina poi, rendono palese che per la parte di mondo nella quale l’Italia è collocata, il centro della decisione politica non è più Parigi o Berlino o Madrid o Roma. Sono i palazzi dell’Unione Europea a Bruxelles e Strasburgo i luoghi in cui si compiono le scelte di fondo che orientano la vita di quasi mezzo miliardo di europei. La questione della rappresentanza e della democrazia deve essere proiettata dal Pd su quella scala oppure la sua discussione politica resterà un mero esercizio retorico. Se chi risulterà eletto nelle primarie sarà in grado di raccogliere queste sfide e di guidare il partito con una capacità inclusiva, il beneficio non sarà solo per il Pd ma per l’intero sistema democratico.

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