Le “povere cose miracolose” del poeta Lorenzo Calogero

Il caso letterario del calabrese di Melicuccà, riconosciuto autore di livello europeo solo diversi decenni dopo la morte
Monumento al poeta Lorenzo Calogero a Melicuccà (Reggio Calabria). Di it: Carmelo Lupini - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=138944158

Immaginate una stupenda vetrata di chiesa andata in frantumi e poi ricomposta senza alcun ordine: un puzzle di un disegno non più percepibile nella sua interezza, eppure quanto più suggestivo nella luce che continua a irrompere dai suoi frammenti colorati. Ebbene, è questo a venirmi in mente se penso alla poesia di Lorenzo Calogero, calabrese nato nel 1910 a Melicuccà, piccolo centro della provincia di Reggio Calabria, ed ivi morto nel 1961.

Ha scritto di lui l’amico poeta, saggista e critico d’arte Leonardo Sinisgalli, uno dei pochi ad aver compreso il suo genio, ancora vivente: «Siamo, è chiaro, di fronte a una poesia colta che, però, scarta il lusso intellettuale, l’enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita. […] Dietro le immagini c’è sicuramente un sistema, una dottrina di cui sentiamo la suggestione. C’è un’idea dell’essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali; il poeta arriva a cogliere un soffio, una scintilla e a restituircene qualche similitudine. Questa partecipazione, questa mediazione viene raggiunta quasi a dispetto della sua coscienza: le sue parole distorte, i suoi nessi incredibili, i suoi lapsus sembrano trascrizione di uno stato di estasi».

Scoperta postuma della stampa italiana e straniera, lui che era stato rifiutato dalle case editrici e ignorato dalla critica, Calogero si era definito «uno strano mendicante che chiede amore e parole… Un solitario emigrante verso le terre della luce e del sole».

Creatura fragile, introversa, contraddittoria (lontano dal paese natio non faceva che sognarlo, e una volta lì subito sentiva la spinta a fuggire), incapace di coltivare amicizie, alimentava il culto della parola, la parola scritta, e benché avesse di sé una pessima opinione, benché ossessionato dal pensiero della morte (convinto di avere tutte le malattie di questo mondo), era tuttavia consapevole di essere abitato dal demone della poesia, per la quale tutto sacrificò. Scrisse di lui Eugenio Montale: «Egli non scriveva la sua poesia, la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile. Se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo».

Le foto che rimangono di lui – una persona goffa, impacciata, dall’aspetto malinconico, lo sguardo smarrito – sono rivelatrici di questa sua incapacità di stare al mondo. Come confida in questa lirica, il cui incipit ricorda il mito di Prometeo: «Mille avvoltoi mi si posero a fianco/ e mi rosero il cuore./Non potei mangiare, non potei camminare,/ non potei star di fianco/che non sentissi/ un nodo rovente al cuore,/ una fiamma che voleva straripare./ Infiniti furono i miei guai/ come quelli del poeta./ Quando vedrò la fine delle mie sciagure/ che mi percuotono a vicenda/ senza tregua?/ In punta di piedi/ avanzo tumultuante pei boschi:/ vedo la mia culla di cenere,/ vedo la fine del mondo».

Qualche cenno biografico. Dopo gli studi a Reggio Calabria, Calogero studiò Medicina a Napoli. Tornato per ristrettezze economiche nella sua terra d’origine per svolgervi la professione, cominciò a comporre liriche complesse, mai lineari e specchio di una vita caotica, ma sintatticamente innovative. Negli anni Trenta, pubblicò a proprie spese le prime raccolte poetiche (solo di recente è apparso il corpus delle sue opere ancora inedite).

L’innamoramento senza seguito per una studentessa reggina lo gettò nello sconforto. Nel 1942 un tentativo di suicidio. Continuò, ma sempre senza successo, a scrivere e a tentare di farsi pubblicare da diverse case editrici. Nel 1955 da Campiglia d’Orcia (Siena), dove aveva ottenuto l’incarico di medico condotto, fece ritorno nella natia Melicuccà. Ma peggiorando le sue nevrosi, l’anno seguente fu internato a Gagliano di Catanzaro in una clinica per malattie mentali, Villa Nuccia, dove dovette far ritorno nel 1956. La morte della madre, cui era legatissimo, fu devastante.

Nel 1957, unica e sola soddisfazione della sua vita, l’assegnazione del premio Villa San Giovanni. Gratificanti anche i contatti con importanti intellettuali come Leonida Rèpaci e finalmente l’amicizia con Leonardo Sinisgalli. Definitivo il ritiro in solitudine a Melicuccà, «tra le mura della mia casa/ al mio deserto focolare/ a pascere di ombre morte/ la falsa rimembranza/ che non è più mia ma del destino».

Lì il suo corpo fu trovato all’alba del 21 marzo 1961: tre giorni dopo il suicidio o la morte naturale? Una circostanza mai chiarita. Nella prima ipotesi, andrebbe accomunato ad un altro grande poeta ermetico calabrese, Franco Costabile, suicidatosi a Roma col gas nell’aprile 1965. Tra il disordine della sua scrivania venne trovata in evidenza questa che è forse l’ultima sua lirica: «Oggi mi curo della morte./ Fra poco e alla svelta morrò,/perché anche tu come sul lago/verrai domani […]».

Ci fu chi definì Calogero “nuovo Rimbaud italiano” in riferimento al “poeta maledetto” francese. In realtà egli non aveva mai rifiutato i valori esistenziali e sarebbe da accostare piuttosto a Leopardi. Singolari, invece, le analogie tra lo scrittore di Melicuccà e Michail Bulgakov, lui pure medico, scrittore in solitudine apprezzato solo da una cerchia ristretta di amici, espulso poi dal consesso degli altri scrittori e per un certo periodo rinchiuso in manicomio prima del riconoscimento universale del suo genio con la pubblicazione de Il Maestro e Margherita.

Sulla lapide di Calogero, ora annoverato tra i grandi lirici europei, è scolpita una sua frase in cui cita le «povere cose miracolose che sono le cose dei poeti».

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