Tra le pieghe delle disuguaglianze in America Latina
Disuguaglianze e scelte politiche. Fino a pochi giorni prima che prendesse il via la protesta sociale in Cile, il governo promuoveva un progetto di riforma tributaria che riduceva la tassa corporativa sugli utili. Con una certa superbia, il giornale di orientamento neoliberista El Mercurio invitava i critici del progetto a studiare economia, perché è risaputo – affermava il quotidiano cileno – che ridurre le tasse ai più abbienti incrementa investimenti e occupazione.
In realtà, non è per niente risaputo e, anzi, gli studi condotti in merito indicano il contrario. Ma c’è di più, i dati reali dicono che i gruppi industriali che accumulano grandi utili, ed anche il segmento più ricco della popolazione dei Paesi dell’America latina, di tasse ne pagano ben poche, godendo di veri privilegi.
Secondo la piattaforma DataIgualdad, che raccoglie dati provenienti dalla Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), la Banca mondiale e il Cepal, la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite), in America Latina i più ricchi pagano in media il 4,8% del loro reddito in tasse, invece del 27%. Ma i valori statistici occultano spesso l’entità delle ingiustizie: nel caso specifico del Cile il segmento più ricco paga appena un 6% di tasse, invece del 30%. In Guatemala, chi è ricco paga circa l’1% e 270 milionari accumulano il 56% del Pil nazionale guatemalteco.
La concentrazione della ricchezza accompagna e incrementa evidentemente le disuguaglianze. Nel 2017, in America latina il 10% più ricco concentrava nelle proprie mani il 68% della ricchezza, mentre il 50% più povero raccoglieva appena il 3,5% della ricchezza totale, il che fa dell’America Latina la regione più disuguale del mondo.
Secondo dati Ocse, nel 2017 in Danimarca le tasse rappresentavano il 49,5% del Pil, in Francia il 45,3%, erano intorno al 44% in Belgio, Finlandia e Svezia ed il 42% in Italia e Austria. La media Ocse, che non è variata, è attualmente del 34,3%. Appena quattro Paesi latinoamericani fanno parte di questo organismo e sono i fanalini di coda della lista: in Messico le tasse sono il 17,2% del Pil, in Cile sono il 20,4%, in Colombia e Costa Rica, ammessi di recente, sono rispettivamente il 19,4% ed il 24%.
L’iniziativa di ridurre in Cile le tasse ai più ricchi, venne poi nascosta in qualche cassetto mentre le piazze si riempivano di cittadini adirati contro un ordine sociale bollato come “ingiusto” ed “abusivo”. E proprio tra gli ingranaggi del sistema impositivo la gente ha cominciato a scoprire come funzionassero i privilegi: il 50% delle entrate tributarie in Cile provengono dall’Iva, che viene pagata da tutti, anche sui generi di prima necessità. Inoltre, una panetteria di quartiere che a fine anno avrà ottenuto utili per 4 o 5 mila euro, su questi pagherà un 18% di tasse, mentre gruppi industriali che dichiarano utili per milioni o centinaia di milioni di euro, pagheranno su di essi una tassa del 9,45%.
Ma i vantaggi dei più ricchi non finiscono qui. Alle poche tasse che pagano si aggiunge la piaga dell’evasione fiscale. Sono 320 i miliardi di euro evasi nella regione, una metà dei quali finisce nei paradisi fiscali.
Alle condizioni attuali, meno tasse significa meno finanziamenti ai servizi sociali, in particolare meno scuole e ospedali, che sono alla base di un sistema meno disuguale. E nel caso della sanità, meno finanziamenti vuol dire meno personale, vuol dire che in caso di una malattia piuttosto complessa, bisogna ricorrere al ricovero nelle grandi città. Quanto sia importante un sistema sanitario esteso ed efficiente, lo si comprende come non mai in questi tempi di pandemia.
Sono dunque molteplici i fronti sui quali combattere le disuguaglianze. Sul piano del sapere economico, vanno smentite teorie come quella di ridurre le tasse ai più ricchi per incrementare gli investimenti, perché sono teorie senza riscontro nei fatti. Un secondo fronte è quello di correggere i sistemi tributari seguendo il principio che paga di più chi guadagna di più.
Un terzo fronte è culturale: pagare le tasse significa dotare la democrazia delle risorse che la rendono reale, altrimenti il rischio è di ridurla a mera dichiarazione di buoni principi. Lo hanno compreso bene i Paesi che hanno ridotto le sperequazioni sociali.