Le periferie di Parigi e il Corano di Stoccolma
Come in un film poliziesco, o come in un filmato di cronaca a stelle e strisce, a Nanterre si è svolto un incredibile episodio in cui un giovane poco più che adolescente, reo (recidivo) di non osservare le regole del codice della strada francese, è stato freddato da un uomo delle forze dell’ordine. Reazione immediata nelle banlieue di mezza Francia, mentre il presidente Macron usa la mano dura per reprimere le rivolte e impedire che la fiammata, come è già successo in passato, diventi incendio incontrollabile, evidenziando un problema assai pronunciato nell’integrazione di immigrati nell’Esagono. Contemporaneamente, a Stoccolma, una serie di provvedimenti amministrativi e giudiziari hanno dato il via a una manifestazione il cui apice doveva essere il rogo di una copia del Corano. In nome della libertà di pensiero si è caduti nell’imbroglio di offendere i sentimenti di tanti musulmani, tra cui uno assai autorevole, il presidente turco Erdogan, appena rieletto, il quale ne ha approfittato per reiterare la sua opposizione all’entrata della Svezia nella Nato.
I due episodi sono un’esemplificazione delle difficoltà in cui, ancor oggi, versano i Paesi europei in quanto a integrazione degli immigrati stranieri, in particolare provenienti dal mondo arabo o a maggioranza musulmana. Nonostante leggi e proclami, malgrado la stretta in materia di sicurezza e il costante lavoro sussidiario da parte di enti solidaristici e religiosi, l’integrazione di tanti immigrati presenta ancora non poche criticità. Sembrano ormai lontani gli eccessi destabilizzanti di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Nizza, di Londra e Copenaghen, atti terroristici e basta, ma non è detto che episodi del genere non si ripetano. Perché le cause del malessere non sono state rimosse, se non in parte.
Perché? Le ragioni paiono essere molteplici, com’è ovvio, ed ogni Paese conosce il suo cocktail (talvolta molotov) di inadempienze, rigidità, abusi, razzismi nemmeno tanto sotterranei. Quello francese è un modello che ha portato indubbi benefici a milioni di persone, ma che richiede la fondamentale rinuncia alla propria identità culturale e religiosa pubblica. In privato fai quello che vuoi, affari tuoi. Ma in pubblico no, la laicità deve essere radicale. Se si accetta una tale condizione, un immigrato può diventare capo dello Stato (come il caso dell’ungherese Sarkozy). Se accetti la laicité à la française, tutto è possibile. Se non l’accetti, l’emarginazione, soprattutto economica, sociale e culturale, è assicurata: le banlieue parigine o lionesi sono potenziali santabarbara della frustrazione dei giovani di seconda o terza generazione di immigrati. Anche nel Regno Unito è possibile salire i gradini del potere (vedi il premier Sunak), ma nessuno ti richiede di rinunciare alla tua identità, basta che l’eserciti nel tuo quartiere, nei ben noti londonistan, dove spesso e volentieri la legge è assicurata da uomini di religione e dalle loro norme.
In Svezia il modello è parzialmente diverso, non ha origini imperialistiche o colonialistiche, come in Francia e nel Regno Unito, è più pragmatico, si cerca di evitare di creare ghetti, londonistan e banlieue disagiate, il più delle volte con successo. Un esempio di successo? Ibrahimovic, il calciatore. Ma il diritto non è ancora riuscito a conciliare le libertà più spinte con il rispetto per tutte le diversità: posso bruciare un libro del Corano dinanzi a una moschea in nome della libertà di opinione e di manifestazione, anche se ciò può non solo offendere l’altrui pensiero, ma addirittura provocare gravi problemi di ordine pubblico.
Nei Paesi del Sud Europa prevale invece il modello dell’integrazione pragmatica, in cui si mescolano una certa attenzione alla sicurezza – in gradazioni diverse a seconda del colore politico del governo −, una non minore tolleranza culturale, una legislazione in fondo accogliente. Che i governi siano di destra o di sinistra, i sistemi industriali bisognosi di mano d’opera dettano comunque legge. Le ideologie, quindi – come il culto francese per la laicità e quello scandinavo per l’assoluta libertà − non hanno gran posto a sud.
Questo schema proposto dei diversi tipi d’integrazione, me ne rendo conto, è un po’ troppo semplificato (non ho parlato ad esempio del modello tedesco) e me ne scuso con i lettori più accorti; ma, nei fatti, possiamo dire che i Paesi mediterranei europei hanno una maggior facilità a capire chi proviene da un’altra sponda, quella meridionale, ma pur sempre mediterranea. Parigi, Londra o Stoccolma non sono e non saranno mai città mediterranee come lo sono Roma, Barcellona o Atene. Inoltre, va detto che «la difesa europea dei confini continentali», di cui tanto si parla, purtroppo si nutre di misure militari, securitarie, amministrative e giudiziarie – in fondo identitarie – molto più che di misure culturali e di dialogo interculturale e interreligioso. Queste ultime misure – già applicate dai singoli Stati in diversa misura – dovrebbero guidare e animare le politiche migratorie. Il capitale della benevolenza e della comprensione rende una società più armoniosa, molto più di quanto non riesca a fare il capitale del risentimento e della diffidenza.
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