Le Olimpiadi viste dagli Usa
Nel corso degli anni abbiamo visto centinaia di atleti americani salire sul podio, spesso quello più alto, ed abbiamo imparato l’inno nazionale degli Usa quasi a memoria e forza di sentirlo suonare. L’atleta Usa, con le lacrime che rigano il volto, la mano sul cuore mentre suona l’inno e sale la bandiera stelle e strisce, sono, in un certo modo, il simbolo dei giochi olimpici. Gli States sono sempre stati in testa al medagliere, qualche volta superati dall’ex-URSS o dalla Cina, appaiati dalla mitica squadra della Ddr (la Germania dell’Est con i suoi atleti ed atlete costruiti in laboratorio). Nei tempi cambiano i concorrenti diretti, ma loro sono sempre lassù, pressoché irraggiungibili, in cima all’Olimpo. Personalmente, non avrei mai pensato, e forse non solo io, che le Olimpiadi fossero così importanti per il Paese. Mi ero creato l’idea che l’inflazione delle vittorie in tutte le discipline, da parte di uomini e donne, lungo i decenni avesse prodotto una diminuzione o mancanza d’interesse per i Giochi.
In questi giorni, trovandomi a viaggiare in varie città Usa, mi sono accorto di quanto i giochi, gli atleti e le atlete siano seguiti. Ogni mattina la prima pagina dei quotidiani riporta foto e notizie delle imprese: Phelps è un vero eroe nazionale con le sue 21 medaglie, così come lo è diventato lo scricciolo di colore Gabrielle Douglas, lo “scoiattolo volante”. La sera la Nbc, una delle rete nazionali più seguite in assoluto, riporta gli avvenimenti principali della giornata – ormai conclusasi da cinque ore sui campi di competizione – tutti incentrati sugli atleti della squadra statunitense.
Ma c’è di più in tutto questo. A parte il forte nazionalismo emerge la centralità della famiglia. I programmi sulle olimpiadi, infatti, oltre a presentare gli atleti prima delle competizioni, ne seguono la vita e i primi passi della carriera, si intervistano i genitori e, nel corso della competizione, la telecamera e la regia americana, tengono ad inquadrare ed indugiare sui membri della famiglia presenti negli stadi, nelle piscine e nelle arene dove si svolgono le competizioni. Le emozioni di entusiasmo, di disperazione, le lacrime ed i sorrisi, le urla ed i salti di gioia, diventano in questo modo patrimonio dell’audience: è il popolo americano che si immedesima in quelle madri, padri e fratelli e sorelle.
Un secondo elemento, che emerge – e questo sorprende probabilmente l’Europa – è la gratitudine a Dio per i risultati conseguiti. Sono pochi gli e le atlete, o le loro famiglie, che non tradiscono parole di riconoscenza a Dio. Qui emerge la spiritualità tipica degli States, che non s’identifica necessariamente, il più delle volte, con una religiosità istituzionale ed una appartenenza definita, ma che sottolinea un rapporto con Dio personale e di un popolo. Quel “God bless America” (Dio benedica l’America) con il quale i Presidenti concludono i loro interventi non sono semplici parole. Sono un modo di essere e di pensare che rende la dimensione spirituale parte della vita quotidiana, nel privato certo, ma che segue l’americano per tutta la vita. Dio benedice chi lavora, chi si impegna, chi lotta per una frontiera, qualsiasi essa sia. Se il successo arriva è perché si è lavorato e lo si è meritato, ma anche perché Dio ha elargito la sua benedizione.
Si vede un legame forte al Vangelo della prosperità (prosperity Gospel) annunciato alle folle da predicatori che fanno la storia della religione negli States. La filosofia che sta sotto è che il cristianesimo si coniuga al successo, alla ricchezza e all’abbondanza. E’ l’antico adagio: “Se si è benestanti significa che Dio ci benedice”. Proprio la ricchezza come benedizione divina è un’idea che risale ancora ai primi dell’ottocento nella storia dell’America. Qualcuno è arrivato ad affermare: «E’ tuo dovere diventare ricco fare soldi onestamente significa predicare il vangelo».
Anche vincere alle olimpiadi può diventare parte di questa prospettiva.