Le nozze di Metha

W.A.Mozart, “Le nozze di Figaro”. Firenze, Teatro Comunale. Sul podio Zubin Metha non cessa di stupire. La gestualità fluente trasmette un senso di naturalezza dando luogo ad un’interpretazione soffice e serena, dove le ambiguità, gli equivoci nei rapporti della commedia di Beaumarchais- Da Ponte sono sfiorati, anziché caricati o drammaticizzati – come in altre esecuzioni -: come è nello spirito del Settecento e di Mozart. Metha passa così dal ritmo incalzante ma leggero dei concertati alle pause contemplative delle arie, che tolgono il peso ai sentimenti, qualunque essi siano, e li trasferiscono in una dimensione catartica, dove il perdono finale apre la possibilità di una nuova visione della vita ai personaggi, che finalmente gettano le loro maschere ed appaiono per quello che sono; ed anche, dopo quattro atti ricchi di colpi di scena, al connubio parola-musica, ormai libero verso un nuovo tipo di teatro musicale. Stupenda la prova dell’orchestra che in tutte le sezioni, ma negli archi (violini primi e viole) in particolare, lavora sul suono, prediligendo tinte pastello, impasti ricchi di luce come nei dipinti del Tiepolo: senza dimenticare quel brio che percorre, inarrestabile venticello frizzante, la partitura, come i legni sottolineano. Ovviamente, ciò è possibile grazie allo straordinario affiatamento direttore-orchestra e alla tranquilla sicurezza con cui Metha guida la compagnia di canto: dal Conte gagliardo di Lucio Gallo, alla raffinata Contessa (Eteri Gvazava), alla vivace Susanna (Patrizia Ciofi), al Figaro impetuoso di Giorgio Surjan, fino alle belle voci di Cherubino (Marina Comparato) e Barbarina (Elenora Contucci). Sulle scene piuttosto scabre di Peter J.Davison, la regia di Jonathan Miller ha impostato uno spettacolo divertente, misurato e in accordo con la musica, pur con qualche concessione alla moda (Basilio ridotto a macchietta gay). Sala strapiena e calorosa, giovani entusiasti. Italiana meravigliosa G.Rossini, “L’Italiana in Algeri”. Roma, Teatro dell’Opera. Agile, scoppiettante di caricature spiritose su trilli e passi di danza – mentre splende il Mediterraneo sempreblu di Lele Luzzati – la regia di Maurizio Scaparro regala un gioco teatrale in cui gli ensemble indiavolati, alternati alle pause languide e sospirose, inscenano quella meravigliosa gioia di vivere e di essere felici che è il Rossini ventunenne, anno 1813. Rossini ride di tutti – giovani e maturi, uomini e donne, italiani e “turchi” – perché tutti sono insieme grotteschi ed ingenui nello scherzo che è a volte la vita e che Scaparro ha il pregio aver colto, affinando con gag mai pesanti una musica che è ritmo elettrico dall’inizio alla fine. Dove le vecchie maschere della commedia dell’arte e dell’opera buffa sono resuscitate grazie ad un’ispirazione che conosce Paisiello Cimarosa e Mozart, ma se ne distanzia per vitalità tutta mediterranea. Regia elegante, direzione musicale equilibrata, con Riccardo Frizza, debuttante all’Opera, che ottiene da un’orchestra in gran forma sonorità brillanti e piene, colori pungenti, senso vivace e leggero del ritmo. Il cast è ottimo: svetta la coppia Flòrez (ormai il massimo tenore rossiniano, timbro argentino, tecnica strepitosa, grande vis comica, naturalezza d’approccio) e Abdrazakov (Mustafà spiritosamente buffo dal timbro caldo); ottimi il Taddeo di Bruno De Simone, misuratamente comicopatetico, e la protagonista Daniela Barcellona, un’Isabella talora troppo timida, ma dalla voce intensa e pastosa. Buonissimi gli altri del cast e il coro, sempre ben preparato da Andrea Giorgi. Spettacolo godibile: con la voglia, appena finito, di rivederlo subito. Il che dice tutto.

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