Le montagne sullo sfondo

Al 62esimo Film festival della montagna di Trento vince un giovane cineasta tedesco, Sebastian Mez. Il suo "Metamorphosen" riporta l'attenzione del pubblico alla catastofe nucleare che nel '57 ha colpito la regione degli Urali
Trento film festival

«Se lo spettatore sta molto attento, i monti si vedono sullo sfondo». Parole di Sebastian Mez, giovane cineasta tedesco che vince il primo premio, la Genziana d'oro, con il suo "Metamorphosen", al 62esimo Film festival della montagna di Trento. La sue pellicola in bianco e nero, che ha stregato tutti per sicurezza di narrazione, rispetto e sensibilità, mette in primo piano la catastrofe nucleare che nel '57 ha colpito una regione degli Urali. Una catastrofe superiore a quella di Hiroshima, ma dimenticata da tutti, le cui conseguenze, con terreno, vegetazione e fiumi ancora altamente radioattivi, sono ancora lì: tumori, artriti, malattie respiratorie e cardiovascolari.

In primo piano al Film festival è andato in scena lo scorrere della vita, su cui sembra stia tornando l'interesse. L'importanza del viaggio, più che la destinazione finale, più il come che il dove, più il perché che il quando. «Da tempo al Film festival della montagna – spiega Gianluigi Bozza che ne è stato direttore – non vincono pellicole che esaltano l'alpinismo sportivo supersponsorizzato o la ricostruzione spettacolare tendenzialmente enfatica delle imprese del passato». E infatti la giuria ha premiato un reportage costato solo 5 mila euro, il lavoro di diploma all'Accademia del cinema di un regista umile, ma convinto, capace, grazie a insistiti primi piani, a voci fuori campo, a panoramiche larghe e lente, a un linguaggio cinematografico impressionante, ma seducente, di far entrare lo spettatore nelle vite dei protagonisti.

Il tutto esaurito, già diversi giorni prima, per le proiezione e per le serate di dibattito alpinistico, con un pubblico fatto in larghissima parte di giovani, testimonia quanto interesse via sia oggi nei confronti delle vicende dell'uomo e del suo confronto con l'ambiente. Le montagne sono sempre quelle, ma il modo di affrontarle che l'uomo ha sviluppato è in continua evoluzione. Free solo (scalata in solitaria senza supporti), clean climbing (arrampicata che non lascia traccia), speed climb (arrampicata a tempo di record)… : sono queste alcune delle nuove sfide dell'alpinismo. Sfumature, sperimentazioni, specializzazioni nuove che rispondono all'esigenza inesauribile degli alpinisti di andare oltre, di conoscere i limiti, di provare forme nuove in un tempo in cui tutte le vette del pianeta sono state già esplorate e scalate.

In questo scenario è venuto a cadere anche l'ultimo tabù: l'impossibilità per la donna di competere con l'uomo. Le donne in montagna sono arrivate al top. In modo ironico, ma dimostratosi fallace, Paul Preuss, primo sul Campanil Basso, cento anni fa aveva affermato che esse sono «la rovina della montagna». Già tre donne hanno raggiunto la vetta di tutti i 14 ottomila, una senza bombole d'ossigeno; Marianne Chapuisat ha scalato un ottomila d'inverno; Lynn Hill è salita in libera sulla immensa parete del monte El Captain prima dei colleghi maschi; Maryna Kopteva e due amiche hanno scalato, restando in parete 38 giorni, la spaventosa Great Trango Tower in Pakistan.

Sono solo alcune delle imprese che testimoniano che oggi le donne alpiniste hanno raggiunto gli stessi traguardi degli uomini. «Di più – precisa il re degli ottomila, Reinhold Messner –: non solo sono pari agli uomini, ma siamo di fronte all'evidenza che la loro arrampicata su roccia è più elegante di quella degli uomini e che la loro resistenza alla mancanza di ossigeno, sugli ottomila, è superiore a quella dei maschi». A non farci perdere di vista i contorni del confronto è una delle pioniere dell'alpinismo rosa, Silvia Metzeltin: «Per favore, parliamo di persone, prima che di uomini o donne». In ogni caso l'alpinismo intende dare l'addio a muscoli e machismo e aprire le finestre su nuovi orizzonti di esplorazione e di alpinismo.

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