Le miniere di Kosseir

Per quarant’anni una colonia italiana rese prospero questo porto egiziano sul Mar Rosso, lavorando alle vicine miniere di fosfati. La testimonianza di uno che c’è stato
Il riposo dopo il lavoro

Siamo nell’Egitto Orientale, sulle rive del Mar Rosso, a circa 200 chilometri da Qena sul Nilo. Kosseir o Quseir o Al-Qusayr è una gradevole cittadina di oltre 50 mila abitanti, erede di quella fondata circa 5 mila anni or sono dagli antichi egizi non lontano da qui e nota poi col nome greco di Leukós Limen (porto bianco). Il suo centro storico, formato da viuzze dove ancora sopravvivono vecchie case con decori in legno, si raccoglie attorno ad un forte, fatto edificare da Napoleone, ha due moschee e alcuni pittoreschi bazar: sono, insieme al porto e al bel lungomare, le principali attrattive per il turista.

Ma non è di queste che voglio parlare, bensì delle vicine miniere di fosfati che, in un recente passato, resero famosa Kosseir in Italia. Almeno quattro erano i giacimenti più importanti, per lo sfruttamento dei quali si costituì agli inizi del secolo scorso, con capitali prevalentemente italiani, una società che provvedeva anche al commercio di questo prezioso materiale, soprattutto in Giappone e nel nostro Paese. E italiani per lo più del Canavese in Piemonte e dell’Agordino in Veneto, dove forte era la tradizione mineraria, furono in buona parte i tecnici e gli operai che resero produttive queste miniere, coadiuvati da manovalanza egiziana.

Per oltre 40 anni, fino al 1963, la colonia italiana – oltre 200 persone tra lavoratori e loro familiari – operò in quella regione desertica dell’Egitto a stretto contatto con la popolazione locale, dando vita a una ferrovia collegata col porto di Kosseir, ad impianti minerari e a un villaggio con alloggi per i dipendenti, edifici per la direzione e gli uffici, una stazione radio, un ambulatorio medico e un ospedale, un negozio cooperativo, una scuola elementare con un piccolo museo, una chiesa e due moschee. Alcune di queste strutture esistono ancora, anche se adibite in parte ad usi diversi, e meriterebbero di essere salvaguardate dall’oblio e dalla decadenza (come il piccolo cimitero di cui una lapide infranta qualifica un tal Francesco come «operaio onesto»).

Testimonia questa poco nota emigrazione, che insieme al sacrificio di tanti nostri connazionali ha visto la collaborazione e la convivenza pacifica di “alpini” ed “uomini del deserto”, una vicenda che avrebbe dell’incredibile, se colui che ce l’ha inviata – un ultraottantenne originario di una frazione di Agordo – non avesse precisato:«Tutti gli argomenti di questo racconto sono realmente accaduti. Niente è stato aggiunto di fantasia. Ho scritto questa storia per lasciare ai miei nipoti una memoria del loro nonno». Eccola:

«La mia era una famiglia patriarcale, dove sotto lo stesso tetto vivevano, con i nonni paterni, tre fratelli e una sorella con rispettivi coniugi e figli. Poco dopo la mia nascita la crisi economica in Italia costrinse tanti ad emigrare in cerca di lavoro. Fu allora che mio padre Arcangelo e mio zio Emilio decisero di partire per l’Egitto, dove furono assunti come sorveglianti nella miniera di fosfato di Hammamat, a pochi chilometri da Kosseir, in una zona arida, brulla, caratterizzata da altopiani rocciosi e pietre aguzze.

Nel 1934 da Foche di Agordo, dove sono nato, la mamma ed io raggiungemmo mio padre ad accrescere, come già ad altre famiglie di agordini, quella comunità denominata “Piccola Italia”. Io avevo quattro anni, ero molto vivace, curioso e intraprendente. Inconsapevole dei possibili pericoli in quei territori del tutto nuovi, mi cacciavo in mille avventure. Come quel giorno in cui, mentre tutti erano a pranzo o a fare la siesta, mi recai presso un cantiere dove trovai, dimenticata, una cartuccia di dinamite con la miccia innescata, la accesi e mi allontanai di corsa. Dopo pochi passi ci fu l’esplosione. Per fortuna, nessuna scheggia mi raggiunse. Il seguito di questa storia non lo so perché, sentendomi in colpa, sparii e per un bel po’ non mi feci più vedere da quelle parti. Non dico che dopo quell’episodio non combinai altre marachelle. Ma era per ravvivare l’ambiente un po’ monotono, dove gli unici ragazzi con cui giocare erano beduini.

Avevo ormai sei anni, era autunno inoltrato ed era venerdì, giorno di festa per i musulmani, quando da mio padre e mio zio Emilio venni invitato ad accompagnarli a cacciare le gazzelle nel deserto. Figurarsi se non dissi subito di sì. Partiti la mattina di buon’ora, marciammo per cinque-sei chilometri nel deserto fino alla zona di Abutundum. Lì i cacciatori avvistarono un branco di gazzelle e, dopo aver programmato la strategia, mi dissero di aspettarli: sarebbero tornati a prendermi dopo la battuta di caccia. Mi sedetti vicino ad una montagnola. Non avevo con me né cibo né acqua.

Mentre aspettavo, mi vennero in mente le favole che mi raccontava la nonna, tra cui quella di Pollicino, bambino piuttosto vivace che per tre volte fu abbandonato in un bosco. A furia di pensare, mi immedesimai a tal punto in quella storia che mi venne il timore di essere stato anch’io abbandonato. Siccome papà e lo zio tardavano a farsi vivi, presi una decisione: “Torno a casa!”. Intorno a me scorgevo, a perdita d’occhio, nient’altro che montagnole, un vero labirinto in cui perdermi. Infatti, camminando sul bordo di quei rilievi, giravo loro attorno senza per questo avanzare. Quando mi accorsi di tornare ogni volta al punto di partenza, risolsi di affrontare quelle montagnole scavalcandole e, stabilita la direzione, partii in linea retta. Purtroppo, avevo presa quella sbagliata; per di più, salire e scendere le alture mi costava maggiore fatica.

Intanto si stava facendo sera, avevo sete ed ero stanco. Stranamente però non avevo paura. L’avventura, anzi, mi esaltava. A questo punto avvenne quello che non esito a definire un “miracolo”, visto che debbo ad esso la mia sopravvivenza: in una valletta trovai tre piccole pozze di acqua piovana: in una mi lavai il viso, nella seconda mi rinfrescai i piedi e nella terza bevvi a volontà. Se parlo di miracolo è perché in quella zona – come venni a sapere in seguito – piove solo ogni dieci anni!

Rinfrancato, ripresi la marcia. Mi fermai solo quando, fattosi ormai buio, trovai rifugio in una piccola grotta dove mi addormentai. Ad un certo punto della notte venni svegliato da un forte rumore, come al passaggio di un branco di animali. Mi alzai ed emisi un grido: tutto ritornò nel silenzio. Del resto, in quei luoghi non esistono bestie feroci: solo gazzelle, stambecchi, fennec (la piccola volpe del deserto), pernici e starne; sono però numerosi gli scorpioni e le vipere cornute. Fortunatamente, non feci nessuno di questi brutti incontri.

Ormai non avevo più sonno e poiché nel frattempo era sorta la luna a illuminare sufficientemente il paesaggio, ripresi il mio cammino in linea. Senonché mi accorsi che un’ombra mi stava seguendo: quando ero in cima a una collina la vedevo ai piedi di essa, mentre quando ero io in basso appariva in cima. Siccome il fenomeno si ripeteva, decisi di andare a verificare di cosa si trattava, ma non trovai niente: per cui non ci feci più caso. Tanto più che quando venne giorno la misteriosa ombra sparì. Che si trattasse dell’angelo custode, come qualcuno poi suggerì, non saprei affermarlo.

Le ore scorrevano mentre continuavo a procedere, secondo me, verso casa: ciò che, purtroppo, non era vero. Ai piedi avevo delle pantofole confezionate da mia madre, i scarpet, che si andavano rapidamente consumando. Pensando al lavoro che avrebbe dovuto fare lei per ripararle, decisi di proseguire a piedi nudi. Dopo qualche tempo però, sentendoli tutti indolenziti, cominciai a calzarne una sì e una no, invertendo l’ordine quando il dolore al piede nudo era intollerabile. Per questo fui poi nominato “Loris dei scarpet”.

Venne di nuovo sera, e di casa neanche l’ombra! Per dormire dovetti ripararmi ancora in una piccola grotta dove, sfinito com’ero, mi addormentai di colpo, sognando di trovarmi a casa. L’indomani ripresi il cammino, ma le forze cominciavano a calare, avevo la gola riarsa e i piedi in fiamme. Ciononostante, mi ostinavo a procedere. La sete! La sete! La sete! Non ne potevo più. Ad un certo punto provai a fare la pipì in un incavo di pietra e a berla, ma appena bagnate le labbra, ne ebbi tanto schifo che non riuscii a mandarla giù.

Continuai a trascinarmi fin verso le quattro del pomeriggio, quando all’improvviso il silenzio fu rotto da un fischio, segno che qualcuno si stava avvicinando. Mi nascosi tra le rocce, deciso a mostrarmi solo se avessi visto qualcuno di mia conoscenza. Dopo un po’ vidi spuntare tre beduini: uno di loro era Bescir, proprio quello la cui casa frequentavo. Mi precipitai da loro, chiedendo acqua. Non ne avevano, ma mi offrirono un’arancia. Di lì a poco arrivò un camioncino sul quale giunsi a casa. Subito venni messo a letto. Ci volle del tempo per soddisfare la mia arsura: mi davano infatti a bere l’acqua solo a piccoli sorsi. Intanto operai e impiegati della miniera venivano a farmi visita ad uno ad uno: sfilando accanto a me con atteggiamento devoto, mi toccavano e se ne andavano. Io, all’inizio, non capivo il perché di quello strano andirivieni. Più tardi la spiegazione: si comportavano così perché, secondo loro, ero un miracolato di Allah.

L’estate successiva i miei genitori mi rimandarono in Italia dai nonni, di cui avevo tanta nostalgia. Nel 1950 mi diplomai perito minerario e l’anno successivo fui assunto alle miniere di Kosseir. Lavorai colà fino al 1956. Andai anch’io a caccia di gazzelle nei periodi meno caldi dell’anno e sempre di venerdì. Tornai a vedere il famoso labirinto degli anni della mia infanzia, ripercorrendo più volte quella parte del deserto. Senza però trovare mai più pozze d’acqua piovana».

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