Le migrazioni e la sfida della convivenza
Un fenomeno planetario largamente previsto per il terzo millennio non può essere gestito come un’emergenza. Eppure la questione mette in crisi le democrazie occidentali, divise tra accoglienza e rifiuto dello straniero. I contributi delle redazioni di Città Nuova di Germania, Stati Uniti e Messico.
La “tolleranza” della Germania
a cura di Bernd Klotz, Francoforte
Nel lontano 1955, accordi italo-tedeschi agevolavano l’immigrazione di lavoratori manuali, ma già con la crisi economica del 1973 arrivarono le prime restrizioni, permettendo il ricongiungimento solo per i familiari degli immigrati già residenti in Germania. Il dibattito attuale sull’immigrazione si basa sul fenomeno del decremento demografico e della globalizzazione dei mercati. Quasi tutti i partiti sono d’accordo sulla necessità di saper gestire la migrazione di forza lavoro con politiche di medio e lungo termine.
La legge adottata nel 2005 è stata solo un primo passo nella promozione dell’integrazione. Ha introdotto maggiori garanzie giuridiche per gli immigrati già presenti e semplificato varie procedure burocratiche. Normative adeguate esistono, tuttavia, solo per soggetti altamente qualificati e liberi professionisti. Riguardo alla condizione dei profughi, la Costituzione federale tedesca sancisce che «i perseguitati politici godono di diritto d’asilo». Non sono previste, perciò, altre motivazioni quali la povertà, le guerre civili, le catastrofi naturali o la disoccupazione.
Con la guerra civile in ex Yugoslavia, negli anni Novanta, il numero dei rifugiati ha manifestato una vera e propria impennata e il dettato della Costituzione ha subìto una interpretazione ancora più restrittiva. Praticamente la richiesta d’asilo non è neanche presa in considerazione se il profugo è transitato per un altro Stato definito “sicuro” e nel quale viene automaticamente rispedito. Tutti gli Stati confinanti con la Germania sono dichiarati «Stati terzi sicuri». Con queste regole, attualmente, il 35 per cento delle richieste d’asilo non viene nemmeno preso in considerazione e solo nel 5-8 per cento dei casi si procede applicando la convenzione di Ginevra sui profughi per evitare il rimpatrio.
Esiste, tuttavia, un margine di tolleranza che permette di rimanere sul suolo tedesco senza diritto di asilo. Le motivazioni possono andare dalla situazione del Paese di origine alle condizioni di salute che impediscono di sostenere il viaggio. Una condizione che si protrae, spesso, per anni, fino ad acquisire il diritto di soggiorno permanente. Ma è uno status che comporta alloggi in abitazioni sovraffollate, mancanza di accesso al mercato del lavoro, tutele previdenziali e prestazioni mediche. Una soluzione censurata dall’Onu e criticata dalle Chiese e da diverse organizzazioni umanitarie.
Neue Stadt – Germania
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Una nazione di immigrati
di Ryan Funk e Susanne Janssen
Oggi il 20 per cento dei migranti a livello mondiale vive negli Stati Uniti. Da sempre siamo una nazione di immigrati. Ora, dopo generazioni, si considerano americani a tutti gli effetti. E altre persone continuano ad arrivare in cerca di felicità, di libertà religiosa, in fuga dalle guerre e dalla povertà. Questa lunga esperienza degli Stati Uniti non ha reso più semplice la questione, tanto è vero che molti americani non condividono le politiche del governo in materia. Singolarmente, tuttavia, gli statunitensi non esprimono disagio nei confronti degli immigrati: molti non avrebbero problemi ad avere un vicino, un capo o un parente acquisito di origine straniera e non sono preoccupati riguardo alla loro capacità di integrazione nella cultura locale.
Come si spiega questo contrasto tra il crescere delle politiche ostili all’immigrazione e il sentire comune? Probabilmente i provvedimenti del governo si basano su alcune percezioni diffuse ma non veritiere. Ad esempio, secondo un recente studio della fondazione Marshall, gli americani, in media, sono convinti che gli immigrati siano il 38 per cento della popolazione, contro il 13 per cento effettivo. Inoltre credono che la maggior parte di loro sia illegale mentre il 70 per cento risiede legalmente negli Usa.
Il termine usato nella legislazione per indicare gli stranieri è alien, che deriva dal latino alius, altro. Ma la frase impressa sul sigillo degli Usa: «E pluribus unum» (da tanti, uno) vuol dire che da altri che eravamo siamo diventati un unico popolo. Molti immigrati, regolari o meno, e ancor di più i loro figli, si sentono americani. È stata l’esperienza dei padri e delle madri – immigrati – di quasi tutti i cittadini degli Stati Uniti. Esiste, oggi, la tentazione di chiudere le porte alla prossima generazione di immigrati. Specialmente in seguito agli attentati dell’11 settembre e al persistere della crisi economica. Ma l’accoglienza dell’immigrazione è parte costitutiva dell’identità degli Usa. Un tratto da non perdere.
Living City – Usa
Livingcitymagazine.com
Frontiere da incubo
di Filippo Casabianca
La popolazione di origine messicana negli Usa sfiora i 30 milioni, quasi la metà del numero dei latinoamericani. La gran parte ci arriva clandestinamente. C’è chi, come Carlos, abitava in un suburbio malfamato di Città del Messico e ha deciso di partire, senza visto, investendo i risparmi di un anno. Arrivato in California tra mille pericoli, ha trovato un salario misero per 14 ore al giorno, ma ora si trova in Alaska, con la moglie e i due figli, a fare lo spalatore di neve in inverno e il giardiniere in estate. Ma tanti altri ci lasciano la pelle e devono vedersela con i trafficanti, i coyotes, che lucrano sulle loro sfortune.
Tanti arrivano dal resto del continente sudamericano. Alcuni si muovono con zattere rudimentali sul fiume Suichale, al confine con il Guatemala. Sono 400 mila ogni anno. I più poveri si avventurano sulla “Bestia”, un treno merci, che lega le regioni del Sud del Messico (Chapas e Oaxaca) con il Nord, attraverso municipi sperduti. Si installano sul tetto dei vagoni dove viaggiano per giorni e notti aggrappati come possono. Dovranno difendersi dai ladroni, dagli agenti della polizia e saltare dal treno per scappare ai controlli. Molti restano mutilati cadendo dal treno per fuggire o perché sfiniti dalla fatica.
Ma i migranti clandestini entrano nel mirino anche dei narcotrafficanti che approfittano della loro vulnerabilità. Sono catturati e tenuti imprigionati in attesa del riscatto dei parenti. Le donne subiscono violenza. Il prezzo della libertà oscilla tra due e quattromila dollari. Chi non paga viene ucciso senza pietà oppure viene arruolato a forza nelle bande criminali.
Chi arriva negli Stati Uniti deve affrontare l’odissea della vita in clandestinità. Dagli inizi del 2000 la normativa è diventata sempre più dura. Nel 2010 si sono avute 637 mila espulsioni, contando solo i messicani. Ma i migranti non hanno più nulla da perdere e cercano di fuggire ai controlli della polizia di frontiera. Riproveranno ancora.
Esiste una comune responsabilità delle amministrazioni statunitense e messicana nel trattamento inumano riservato ai migranti clandestini. La loro criminalizzazione si basa su motivi razziali e ideologici. Una violazione di fondamentali diritti umani che apre la strada a ogni brutalità. Esiste perciò l’urgenza di cambiare registro, a partire anche dal riconoscimento dei benefici economici apportati dal lavoro degli immigrati. L’intollerabile scenario che giunge dalle frontiere tra i due Stati dovrebbe muovere verso l’adozione di politiche migratorie civili e condivise nel segno del rispetto dei diritti elementari di tanti esseri umani costretti a migrare.
Ciudad Nueva – Messico
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