Le lontane radici di Azzardopoli

L’origine dell’attuale proliferazione del gioco d’azzardo risale indietro nei decenni. Già Matteottiaveva denunciato il legame tra oscuri interessi speculativi (casinò e petrolio) e il nascente regime fascista. Intrecci che tornano d’attualità. Intervista a Riccardo Mandelli, storicodell’industria dell’azzardo
casinò

La grande questione di Azzardopoli, l’intreccio di poteri che speculano sulla diffusione dell’offerta del cosiddetto “gioco” d’azzardo nella società, non è un fenomeno recente anche se il nostro triste primato europeo è stato raggiunto grazie all’incentivazione delle leggi che si sono succedute negli ultimi 15 anni come si dimostra nel libro “Vite in gioco. Oltre la slot economia”(Città Nuova)sul movimento Slot Mob, in cui si accenna alle ricerche del saggista Riccardo Mandelli che hanno gettato nuova luce sull’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto, come è noto, nel 1924 ad opera di sicari fascisti. Ora Mandelli ha pubblicato due nuovi libri. Uno di approfondimento sul legame agli affari dell’azzardo e il delitto Matteotti e l’altro su “Le case del destino. Uomini, fatti e segreti dell’industria del gioco d’azzardo in Italia dalla fine dell’Ottocento a oggi”.  Ne parliamo direttamente con lo storico.

Come è nata la sua indagine sul delitto Matteotti e le trame delle case da gioco?

«Ho iniziato a lavorare su vicende di Sanremo e mi sono presto accorto dell’incredibile “peso” del casinò. C’erano materiali d’archivio mai utilizzati. Ho allargato il campo al rapporto tra industria dell’azzardo e fascismo e mi sono imbattuto nei collegamenti con il caso Matteotti. Qualcuno aveva già elaborato l’idea che fosse stato ucciso per le sue indagini nel mondo dell’affarismo “nero”. La questione delle case da gioco occupava lì un posto di rilievo, più del petrolio Sinclair su cui ha scritto Mauro Canali. E poi vengo da una famiglia socialista e sono cresciuto con il mito di Matteotti; mio nonno aveva tenuto appesa una sua foto in soggiorno per tutto il Ventennio».

Eppure far entrare i casinò nel sacrificio di Matteotti non sminuisce il peso nella vicenda del regime fascista?

«Ma il mio lavoro non tocca il legame tra il sacrifico di Matteotti e l’opposizione al fascismo! Si dimentica che Matteotti era sì antifascista, ma prima di tutto era socialista, quindi anticapitalista. Cercava di individuare i rapporti più opachi che univano il grande capitale industriale-finanziario e un fascismo che voleva presentarsi come la forza capace di piegare il mondo economico agli interessi collettivi. Se fosse riuscito a dimostrare che gli uomini del duce – anche quelli più vicini a lui come il fratello Arnaldo – agivano per conto dei banchieri nel degradato universo delle bische, il governo ne sarebbe uscito malconcio. Una questione tattica: Mussolini nel 1924 non era ancora un dittatore capace di mettere a tacere ogni scandalo. Subito dopo la scomparsa di Matteotti, quando tutti puntavano sulla pista “affaristica” (ma non per questo meno politica), i suoi compagni si resero conto che rischiavano di trovarsi con un pugno di mosche. Solo Mussolini costituiva un bersaglio abbordabile, a patto di concentrarsi sulle sue responsabilità politiche e lasciare fuori i suoi legami con vertici intoccabili. Ma lui riuscì ugualmente a tenersi a galla. Vent’anni più tardi restava il problema fondamentale, e cioè che la genesi del delitto aveva coinvolto settori che mantenevano la loro centralità nella nuova fase storica. Dovevamo così accontentarci di una verità parziale, che non tirava in ballo gli intrecci tra banche, faccendieri e altri fantasmi del passato attivi nell’Italia repubblicana».

Si può dunque tracciare un percorso tra i poteri al tempo di Matteotti e  il capitalismo attuale che ha intercettato l’occasione di trarre profitto dalla "bisca Italia" come la chiama il quotidiano Avvenire?

«Nonostante gli sforzi della lobby, la “bisca Italia” non è decollata tra gli anni Trenta e Ottanta per il prevalere della politica sull’economia. Il carattere moderato del capitalismo postbellico derivava dalla forza dei partiti di sinistra e dal ruolo internazionale dell’Urss. Con la caduta del Muro è finita la necessità di mostrare il volto umano, rendendo evidente la parentela originaria tra capitalismo e gioco d’azzardo, tra “banco” e banca. Oltre ai quattro casinò storici, esistevano in Italia solo lotto, lotterie, Totip e Totocalcio. Poi le resistenze della classe politica italiana sono state travolte; cent’anni di dibattiti sui doveri dello Stato nei confronti dei cittadini, i molti “no” al gioco pronunciati dai tribunali, le resistenze alle pressioni avanzate in nome dello sviluppo turistico di questa e di un’altra località: tutto spazzato via come un residuo di “Stato etico” che pretende di insegnare valori ai cittadini, incompatibile con le funzioni neutre dello Stato liberale. Ma, del resto, il compito affidato alla politica è quello di redistribuire con ogni mezzo la ricchezza e il potere dal basso verso l’alto. Il debito creato dalla finanza speculativa per moltiplicare i profitti è stato trasferito agli Stati, e da questi ai cittadini. I “cravattari” delle bische ci hanno insegnato che il debitore è uno schiavo da spremere fino all’ultima goccia».

Indagando in una visione storica di lungo periodo si può individuare un tratto antropologico, economico e politico che renda ragione del fenomeno pervasivo dell’azzardo?

«La speranza di cambiare la propria vita senza fatica, da un momento all’altro, ricevendo un dono dall’Ignoto o dall’Imperscrutabile, fa parte della natura umana, e probabilmente, come aveva già notato Freud, rientra nella sfera religiosa. È un surrogato dell’attesa salvifica di un intervento divino. Ma dove il desiderio dell’uomo concentra tutta la sua intensità, anche la sua vulnerabilità si manifesta pienamente. Ogni epoca ha trovato le persone e i mezzi capaci di sfruttarla a fini di profitto e potere materiale. Questa qui, poi, ci sta riuscendo meglio di tutte le altre».

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