Le lezioni dal Sudafrica
Il Mondiale del Sudafrica, al di là del risultato finale, ha dischiuso nuovi scenari al mondo del pallone.
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Il Mondiale del Sudafrica, al di là del risultato finale, ha dischiuso nuovi scenari al mondo del pallone. L’Europa era arrivata in Sudafrica con 8 squadre fra le prime 10 nel ranking mondiale: ai quarti il sorpasso, con 4 sudamericane, un’africana e 3 sole europee qualificate. Mai successo. In pochi anni l’Europa è invecchiata, e male. Inghilterra, Francia e Italia sono naufragate in fretta, assecondando scorbutici timonieri. Lippi lascia una nazionale a brandelli… pardòn, a Prandelli. Se Olanda e Spagna hanno brillato rispettivamente grazie alla freschezza di Sneijder e compagni e ai guizzi di Villa-Maravilla, dopo il Mondiale è la Germania, solida, ma spregiudicata e giovane, ad indicare il nuovo menù al vecchio continente: speziato e saporitissimo grazie agli ingredienti mediterranei rappresentati dai suoi immigrati.
La supremazia complessiva del Sudamerica ha diverse matrici. Il Brasile, europeizzato da Dunga, ha mostrato meno fronzoli, due forti mediani a protezione, la miglior difesa di sempre. L’Argentina ha goduto dell’inattesa arma dell’intramontabile Maradona. Il Paraguay, operaio e senza stelle, ha mostrato quanto possono l’arrocco, lo spirito di squadra e l’abitudine a soffrire tirando la carretta. L’Uruguay, la “celeste”, è stata una delle sorprese più belle: equilibrio e talento.
L’Africa avrebbe potuto mostrare qualcosa di più nel suo Mondiale, ma le stelle, da Eto’o a Drogba, non hanno brillato. Il solo Ghana è rimasto in piedi a mostrare quanto possano la forza fisica, lo scatto bruciante e la sorpresa nel gioco.
Uno dei protagonisti è stato il pallone, la cui volubilità ha tradito portieri e attaccanti: per questo hanno vinto le squadre più abituate a giocare rasoterra. Un altro è stato Blatter, pontefice di una delle ultime Chiese universali. La tecnologia, la scienza toglierebbero, a suo insindacabile giudizio, ad un goal fantasma o a un fuorigioco, quell’aura di mistero, che avvolge e giustifica l’errore arbitrale come segno di un più alto volere del destino. Il calcio, per lui, non si alimenta solo di fatti e di successi, ma di recriminazioni e di «se l’arbitro avesse visto».