Le lacrime di Niobe
«Niobe, regina di Tebe, sarebbe stata la più fortunata delle madri, se tale non fosse sembrata a sé stessa. “Sono felice; chi potrebbe negarlo? L’abbondanza di figli mi rese sicura. Immaginate che si sottragga qualche parte a questa moltitudine; benché privata, non mi ridurrò al numero di due, che è la prole di Latona”. La dea si indigna e si rivolge ai figli, Apollo e Artemide, per essere vendicata.
Vicino alle mura di Tebe, in un campo pianeggiante, i figli maschi di Niobe si esercitano a cavallo. Lì, i gemelli divini fanno strage dei fanciulli con arco e frecce.
La notizia della sciagura e il dolore del popolo raggiungono Niobe, la quale si stupisce che gli dèi abbiano potuto ciò e si adira che abbiano osato: “Godi, crudele Latona, del mio dolore e sazia il cuore; son portata alla tomba da queste morti. A me infelice, però, restano più figli che a te; anche dopo tante morti sono superiore”.
Ha appena finito di parlare che risuona dall’arco la corda che atterrisce tutti, eccetto Niobe, sfrontata anche nella sventura. Dopo che sei figlie sono state uccise, resta l’ultima; la madre, ricoprendola con il corpo dice: “Una sola, la più piccola, lasciamene; di molte te ne chiedo una sola”. E mentre prega, quella cade.
Privata della famiglia si accascia e diviene di pietra; l’aria non muove i capelli, il colore del viso è esangue, gli occhi sono immoti nel volto, niente di vivo è nel suo aspetto. Anche la lingua nel palato si irrigidisce e i polsi cessano di battere; il collo non può piegarsi, né le braccia muoversi, né i piedi camminare; anche le viscere sono pietra. Avvolta in un turbine di vento, viene trasportata nella sua patria e, sulla vetta di un monte, si stempera in pianto. Tuttora il marmo stilla lacrime».
Questa libera versione tratta dal libro VI delle Metamorfosi di Ovidio – una delle descrizioni più celebri del mito di Niobe e dei suoi sventurati quattordici figli – è all’origine della mostra E dimmi che non vuoi morire. Il mito di Niobe in corso a Tivoli fino al 23 settembre negli spazi del Santuario di Ercole Vincitore, uno dei maggiori complessi sacri dell’architettura romana di epoca repubblicana, realizzato con una serie di terrazzamenti a picco sul fiume Aniene.
A due millenni esatti dalla morte di Ovidio nell’esilio di Tomi, viene messa in scena questa tragica storia di arroganza femminile e di vendetta divina, che toccando uno dei più intensi sentimenti umani – il dolore inconsolabile per la perdita dei propri figli –, ha ispirato artisti, scrittori e musicisti di ogni tempo: in particolare maestri delle arti figurative, attratti dalla rappresentazione patetica del corpo umano nelle più varie torsioni ed espressioni di sofferenza.
L’opera su cui s’impernia l’intera mostra è il gruppo dei Niobidi scoperto nell’estate del 2012 a Ciampino, negli scavi della villa romana di Marco Valerio Messalla Corvino, console nel 31 a. C. con Ottaviano, poeta e protettore di poeti come Tibullo e Ovidio. Viene da chiedersi se non siano state proprio queste statue che ornavano la piscina del suo mecenate a stimolare l’autore dell’Arte di amare a cantarne il mito nelle Metamorfosi. A meno che, suggestionato dal poema ovidiano, non sia stato lo stesso Messalla Corvino a volere per la sua villa un tale complesso scultoreo.
Se perno fondamentale dell’esposizione rimane il gruppo di Ciampino, per la prima volta presentato al pubblico, il percorso comprende altre testimonianze della popolarità, del fascino e dell’eredità del mito di Niobe lungo i secoli: dalle preziose ceramiche attiche a figure rosse, ai marmi, ai fregi e dipinti del Rinascimento, fino ad opere di autori del XX secolo e del nuovo millennio, motivo di riflessione sulle atrocità della guerra e dei genocidi dei nostri giorni. Un’esperienza visiva che si arricchisce anche di addentellati letterari, musicali e simbolici, sempre ispirati alla poesia di Ovidio.
Dei Niobidi in esposizione, datati al I secolo a. C. ma probabile replica di un originale greco più antico, va detto che le sculture rinvenute sono solo sette delle tredici o quindici originarie, due delle quali non note da altri esemplari esistenti: di qui la rilevanza della scoperta. Quanto a Niobe, di cui si è preservata solo la testa, doveva figurare su un basamento al centro della piscina, che in tal modo veniva alimentata idealmente dalle lacrime della madre, per sempre fissata nella pietra come nel racconto mitico.
Il restauro del complesso è stato particolarmente impegnativo a causa dell’avanzato stato di corrosione del marmo: un degrado di tipo chimico dovuto all’interro in terra argillosa che ha determinato la colorazione bruna delle statue, rendendone alcune singolarmente simili a calchi pompeiani: un ulteriore tocco di drammaticità alla visione di queste vittime di una violenza efferata.