Le isole del martirio

Le Solovki secondo lo scrittore russo Zachar Prilepin. Il suo romanzo “Il monastero” è una cruda testimonianza di quando quel remoto arcipelago abitato da monaci divenne un inferno sovietico

Per secoli luogo di contemplazione e di santità, dal 1923 al 1939 ospitarono il primo lager sovietico. Sono le isole Solovki, un arcipelago dell’estremo Nord a circa 160 chilometri dal Circolo polare artico, noto alle antiche popolazioni della Carelia russa quale confine, quasi, tra il mondo terreno e l’aldilà.

Qui agli inizi del XV secolo sorse il primo monastero ortodosso su un lago ai piedi del monte Sekira. Col tempo la cittadella si espanse fino a diventare una vera fortezza, arricchendosi di magnifiche chiese. Nell’intero arcipelago i monaci tracciarono strade sulle paludi, unirono i laghi con canali, le isole con dighe, dotandosi perfino di un porto di pietra. Nello stesso tempo organizzarono attività e mestieri, misero in piedi un esercito per difendere i loro possedimenti, crearono leggi, un proprio tribunale e un carcere per laici ed ecclesiastici.

Dal 1668 al 1676, per essersi opposti alla riforma religiosa voluta dallo zar e dal patriarca Nikon, i monaci sostennero l’assedio da parte delle truppe moscovite. Al momento della capitolazione, dovuta al tradimento di uno di loro, erano sopravvissuti solo 14 religiosi su 700. L’eroica resistenza dei “vecchi credenti” circondò da allora le Solovki di un’aura di eroismo e incoraggiò le sacche di ribellione sparse in terraferma.

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Agli albori del XX secolo il monastero era più che mai fiorente: possedeva una propria flotta, il primo bacino a secco della Russia settentrionale per la riparazione dei natanti, una delle prime centrali idroelettriche, imprese industriali e agricole, una stazione radio, e si apprestava ad acquistare un aeroplano. Migliaia i pellegrini che visitavano ogni anno le isole. Ma con l’ammissione tra i monaci, nel 1904, di alcuni soldati reduci dalla guerra russo-giapponese fece il suo ingresso in quel remoto arcipelago la Rivoluzione di Febbraio. Deposto il superiore, i nuovi venuti aprirono le porte ai bolscevichi, che secondo loro avrebbero dovuto garantire il ritorno al primitivo spirito contro i privilegi ecclesiastici.

Iniziava invece un’”epoca tremenda”, quella dei gulag sovietici, dove l’annientamento degli uomini sarebbe divenuto una scienza empirica: definizione data da una delle vittime più illustri del terrore staliniano, Pavel Florenskij, internato nelle Solovki a 55 anni. Nell’area dei monasteri confluirono così dissidenti dal regime, perdenti della rivoluzione bolscevica, criminali comuni accanto a sacerdoti e vescovi non solo ortodossi ma anche cattolici, a musulmani, ad atei… Non mancava neanche una colonia di socialisti rivoluzionari e di anarchici. Di questi prigionieri, condannati ai lavori forzati in un clima oltremodo inclemente, circa un milione perì per stenti, fucilazioni, epidemie fino alle “purghe” del 1937, quando la stessa sorte delle vittime toccò a molti dei loro aguzzini.

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E ai nostri giorni? Risorto dopo le distruzioni operate dai sovietici e dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, dal 1992 il complesso monastico ospita nuovamente una comunità religiosa, esigua ma segno di rinascita e di speranza in quelle Solovki tornate ad essere un centro di spiritualità e meta di pellegrinaggi.

Una storia così drammatica in uno scenario di così forte suggestione non poteva non ispirare qualche romanziere. È il caso di Zachar Prilepin, scrittore e giornalista russo (è nato a Nižnij Novgorod nel 1975). Veterano della guerra in Cecenia, amato e odiato in patria soprattutto per le sue posizioni politiche (è un oppositore di Vladimir Putin), Prilepin è noto in Italia soprattutto grazie all’editrice Voland, che ha pubblicato come sua quinta opera Il monastero, monumentale e pluripremiato romanzo di oltre 800 pagine nel quale l’autore affronta un tema spinoso e attuale: quello del rapporto di un Paese con la propria storia scomoda.

È la vicenda, ambientata negli anni ’20 del secolo scorso, di Artëm Gorjainov, condannato a tre anni di detenzione nelle isole Solovki. Fra čekisti e antičekisti, ladri e assassini comuni, rivoluzionari e controrivoluzionari, il giovane tenta di sopravvivere in un mondo che ha adottato regole e leggi proprie, un mondo dove le condizioni di vita quasi insopportabili, la fame, il lavoro massacrante, i soprusi e la brutalità non sembrano tuttavia piegarne l’indole integra. Sullo sfondo di una natura superba e violenta si dipana un appassionante romanzo storico, corale, ricco di personaggi e colpi di scena. Fra disumanità e ingiustizia, rivalità, amicizie, impossibili amori, il lettore si trova coinvolto in mille storie.

Le Solovki, questo «riflesso della Russia» come dice l’autore, gli erano state presenti fin da bambino nei racconti del bisnonno, che aveva visto «santi e demoni» in quelle isole dove era stato detenuto per tre anni. Alcuni personaggi storici del romanzo, modi di dire e situazioni, Prilepin li ha ascoltati direttamente dal vegliardo o da altri parenti. Dopo la morte di tutti i suoi, riordinando quei racconti e confrontandoli con ciò che doveva essere accaduto realmente, lo scrittore ha posto mano al romanzo, che gli è letteralmente cresciuto tra le mani. «Questo non è un libro sul Gulag – racconta –. Il Gulag nasce dopo le Solovki. Ciò che hanno descritto Solženicyn e Šalamov non sono le Solovki. Nel mio romanzo c’è la storia della prima fase del sistema penitenziario sovietico. C’era una qualche verità-non verità, c’era l’idea di forgiare l’uomo nuovo. È fallita. Hanno perso. Hanno prodotto solo una poltiglia sanguinolenta. Ma per me era importante capire dove fosse l’inizio, come tutto ciò succeda – un passo dopo l’altro, piena di illusioni, la gente marcia verso l’inferno. È questo che trovo interessante».

Ed è questo il principale motivo di riflessione di un’opera che s’inserisce magnificamente nel filone dei grandi autori classici russi.

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